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Blog perverso e polimorfo, abitato da forme di vita aliene e virulente: siamo portatori insani del virus del pensiero diagonale.

mercoledì 6 marzo 2013

UN LAVORATORE IN TRINCEA






A voci dalla Piazza Andrea Dini, magazziniere nella grande distribuzione e R.S.U CGiL, ci parla di lavoro e sindacato. Buon divertimento!


  1. Ciao Andrea, parlaci un po' di te, cosa fai nella vita?
    Dipende. Se intendi quale lavoro faccio, ti rispondo “uno qualsiasi”, ma se intendi chiedermi quali interessi coltivo, qual è la principale occupazione della mia vita quotidiana allora ti rispondo “la ricerca” (nel senso più ampio del termine). In poche parole coltivo la mia curiosità.
  2. Berlusconi e Marchionne, sono o no a tuo avviso due modi diversi d'intendere impresa? Se sì, attingendo a quello che quotidianamente noti sul posto di lavoro, puoi descriverci in breve come secondo il tuo punto di vista i lavoratori si sono adattati al cambiamento......dal padrone al manager, intendo?
    In sostanza credo proprio di no. Il diverso stile padronale è influenzato dal diverso materiale umano – i lavoratori – con cui hanno a che fare. Da una parte i lavoratori dell'informazione, dello spettacolo ecc. dall'altra le tute blu. I primi si sentono dei privilegiati, e lo sono in gran parte, anche se ficcando un po' il naso non tarderemmo a scovare contratti atipici, precariato ecc. I secondi sono i veri guerrieri della nostra epoca (ma non parlo del terzo millennio ma dell'ultimo scorcio del secondo). Il passaggio dal padrone al suo vicario, il manager, non ha cambiato di una virgola i rapporti di produzione, sebbene li abbia resi più complessi, più mediati ma non per questo meno violenti. Li ha resi forse un po' più impersonali, ma è comunque un passaggio che data fine '800. Sotto questo rispetto il caso italiano è un po' anomalo, essendo le SPA autoctone più importanti ancora dominate dalle famiglie storiche del capitalismo italiano, ma rimane un'eccezione regionale.
  3. In una società dominata dalla televisione dove all'apparenza tutto pare essere alla portata di tutti, ha ancora senso parlare di proletari e borghesi? Se si, in quale misura?
    Naturalmente si, anche se sono due categorie profondamente cambiate negli ultimi trenta o quarant'anni. Di fatto esiste ancora chi possiede i mezzi di produzione e chi, invece, può solo farli funzionare. Esistono ancora gli uni e gli altri, ma bisogna intenderci, i primi non sono più quelli che popolavano gli slum in quel di Manchester e neppure quelli del boom economico o del '68 in Italia, mentre i secondi hanno rafforzato la loro “posizione dominante”. Ci hanno fatto credere che i radicali mutamenti che hanno interessato le società un tempo identificate con l'occidente libero, ci avrebbero indirizzati verso una civiltà del benessere, oggi sappiamo che non è vero ma forse non ne siamo ancora del tutto coscienti. In poche parole, fino a quando la relazione che lega i lavoratori e i mezzi di produzione sarà condizionata dal possesso esclusivo di questi ultimi da parte di pochi, quella relazione non potrà che sottostare alle leggi del profitto e, di conseguenza, dello sfruttamento.
  4. Secondo il tuo parere i grandi programmi di massa come i reality show, in che modo hanno inciso sulla memoria storica del nostro Paese?
    Sicuramente non vi hanno inciso direttamente. I reality, alla fine, non sono che una conseguenza dell'abbrutimento in cui versa la cultura di massa, la perdita della memoria storica ne è, forse, la vittima più illustre.
  5. In scritti corsari Pasolini parlava della nascita di un nuovo potere completamente sconosciuto anche alla classe politica degli anni '70 e che in breve tempo avrebbe soppiantato ogni cosa. Il potere economico. In un mondo di chiaro stampo neo-liberista come lo è quello di oggi e dove il profitto regna sovrano su tutto, da un punto di vista prettamente pragmatico ha ancora senso discorrere di destra e sinistra? Se si, qual'è questo senso?
    Se è per quello ha ancora senso parlare di rivoluzione. Il potere economico, in realtà, è da sempre perfettamente conosciuto, non era forse Marx a parlare dei parlamenti e dei governi come del comitato per il disbrigo degli affari correnti della borghesia? E chi era (ed è) la borghesia se non la detentrice del potere economico? Semmai, negli ultimi tempi, si è scoperto essere il potere della finanza il capo bastone del capitalismo contemporaneo, ma anche qui basta andare con la memoria al venerdì nero del '29 per capire quanto fosse un segreto di pulcinella. Destra e sinistra? Quelli sì che sono concetti superati, ma non perché non ci sia più una ragione per dividerci sulle questioni del governo della cosa pubblica, ma perché semplici etichette. Ci sono Gli sfruttati e gli sfruttatori, le differenti sfumature politiche sono solo funzionali al mantenimento dell'egemonia sulla società da parte di chi domina in regime di capitalismo.
  6. Che fine ha fatto o come si è evoluta secondo te la tanto famigerata classe operaia in quest'ultima generazione?
    La classe operaia da sempre conosce evoluzioni e involuzioni. Per quanto riguarda le ultime generazioni... beh, se si pensa che i lavoratori dell'industria e quelli del terziario si equivalevano quanto a numero fino al 1977 (con un rapporto costante per quasi tutto il '900) e che oggi i primi sono diminuiti di più del 20% (a fronte di una crescita degli occupati di circa 3 milioni) mentre i secondi sono quasi raddoppiati, non possiamo che trarre certe sconsolanti conseguenze. In primo luogo la crescita smisurata, e senza precedenti, di quella quasi classe che è la piccola borghesia, tanto vituperata da Gramsci e non solo, e di un nuovo sottoproletariato fatto di lavori precari e bassi salari, responsabili un tempo, e facendo oggi le dovute proporzioni, dell'avvento del fascismo. La prima detentrice quasi esclusiva di quel gretto individualismo, “peso morto della storia”, che tanto ci fa penare oggi, di fronte ad un padronato sempre più consapevole del suo peso. Il secondo, invece, di quel sordido sentimento di sconfitta che ricorda tanto una “vittoria mutilata”. Infatti, quando fino a qualche hanno fa – oggi non ne hanno più il coraggio – ci sentivamo dire “siamo tutti classe media”, quella specie di slogan che ci sussurrava “non lamentatevi ché siete tutti benestanti”, stava a significare il preteso raggiungimento della società del benessere diffuso: l'enorme mutamento del senso comune e del comune sentire, oltre che dei costumi e dei consumi, che ha caratterizzato le classi subalterne, che in Italia affonda le radici negli anni del boom economico, ma con un anticipo di almeno vent'anni negli altri paesi ad economia di mercato sviluppata. Ma oggi sappiamo quale fine abbia fatto quel mito.
  7. Cos'è e che mansione svolge un R.S.U. Sindacale?
    Rappresenta in tutto e per tutto il sindacato, quindi i lavoratori, all'interno nella propria azienda. Mantiene le relazioni sindacali, sottoscrive accordi, si fa portavoce delle esigenze e delle istanze dei lavoratori sul luogo di lavoro. Un ruolo, forse, da riscoprire – assieme a quello dello R.L.S. (rappresentante dei lavoratori per la sicurezza) – soprattutto da parte del lavoratore che ne incarna la figura. É da lì che parte la presa del sindacato sui luoghi di lavoro ed è un ruolo ingrato, anche se immensamente gratificante, perché ci espone in prima istanza alle pressioni della parte datoriale. Credo ci voglia coraggio per svolgerlo al meglio, soprattutto negli ultimi tempi, ma proprio per questo è sempre più necessario.
  8. Pur se con molti problemi e con alcune forti contraddizioni la CGIL negli anni '70 pareva riuscire a rappresentare in maniera adeguata i lavoratori oltre che al tavolo delle contrattazioni anche da un punto di vista culturale. Oggi è sempre così o le cose sono cambiate?
    Il sindacato non è sempre stato padrone delle rivendicazioni operaie. Gli anni '70 hanno significato molto per il movimento sindacale, ma dire che la CGIL rappresentasse in maniera adeguata i lavoratori è una semplificazione eccessiva. Forse è proprio in quegli anni che si è verificato uno scollamento epocale fra lavoratori e sindacato. É in quegli anni che nel mondo del lavoro si concretizza quel profondo mutamento di cui ho parlato poco fa e la marcia dei quarantamila, dopo la lunga vertenza FIAT conclusasi nell'ottobre del 1980, ne è la prima fragorosa manifestazione. Quanto all'oggi, è indubbio che anche la CGIL dovrà affrontare un radicale rinnovamento, ma è anche vero che ad oggi ancora rappresenta un bastione di fortezza per il lavoratore, basta frequentare gli uffici di una qualsiasi Camera del Lavoro per rendersene conto. Io credo, anzi sono certo, che il futuro dei conflitti di lavoro non potranno fare a meno della CGIL che, per quanto criticata – da ultimo, e non a caso, anche dall'odierno leader carismatico della piccola borghesia, Beppe Grillo – è ancora l'unico sindacato capace di opporre una qualche resistenza allo strapotere padronale, con tutto il seguito di errori, marce indietro, timide rappresaglie e quant'altro.
  9. I sindacati di oggi sono a tuo avviso preparati per poter rappresentare anche i lavoratori precari e i disoccupati?
    É proprio questo il punto: la necessità di rinnovarsi per poter rappresentare nel suo complesso il mondo del lavoro. Saper rimettersi al passo delle trasformazioni avvenute nell'ultimo trentennio in quel mondo. Tornare a guardarlo secondo una prospettiva anche sovranazionale – per non dire internazionale. Ma sia chiaro, questo passo costerà molto alla CGIL e per questo ci vuole coraggio. Significa esporsi agli attacchi di quel sindacalismo più combattivo ma anche enormemente più corporativo quale è quello di base. Significa esporsi all'attacco anche delle correnti interne più oltranziste e, forse, almeno in un primo momento all'incomprensione di quei lavoratori che ad oggi ne costituiscono la base più solida e più tutelata. Probabilmente siamo di fronte ad un passaggio analogo a quello fra i sindacati di mestiere e il sindacalismo industriale: i più tutelati dovranno rinunciare ad una parte di tutele in favore di quell'immensa massa di lavoratori precari e disoccupati che popola gli uffici per l'impiego invece delle assemblee sindacali.
  10. Fausto Bertinotti e Sergio Cofferati sono due noti sindacalisti che ormai da tempo si sono consegnati al mondo dell'alta politica. Come mai, secondo te, molto più difficilmente un politico diventa sindacalista?
    In primo luogo perché il sindacalista è il parente più nobile ma anche più povero di onori e di denari del politico. E poi perché per fare il sindacalista è necessario non aver perso quel legame, quella comunità di destino con il lavoratore senza la quale si perde ogni capacità di discernimento su ciò che gli è più utile in una prospettiva a breve-medio termine. Insomma, al politico “l'utopia”, al sindacalista il dovere di far sì che, in qualche modo, il lavoratore continui in primo luogo a riempirsi la pancia con dignità e, in secondo luogo, a rivendicare di giorno in giorno quanto gli spetta per diritto “naturale”.
  11. Vuoi parlarci del progetto “oltre la trincea”?
    É la certezza che la CGIL sarà il fulcro del rilancio delle lotte dei lavoratori. Ma è, insieme, la consapevolezza di non aver fatto abbastanza per tutelare le nuove generazioni, perse fra una miriade di tipologie contrattuali; è la persuasione che c'è ancora molto da fare, in Italia, perché la donna possa dirsi degnamente inserita in un mondo del lavoro che non veda nella maternità e nella famiglia un ostacolo alla realizzazione della donna, ma il suo necessario complemento. La convinzione che gli immigrati non possano che costituire, per i lavoratori italiani, una risorsa e non una minaccia e molto ancora. Ma è soprattutto la certezza che sarà necessaria una profonda trasformazione, nel nostro sindacato, perché possa affrontare con successo le sfide future e che lo indirizzi verso una nuova conflittualità, con strumenti nuovi, con nuova determinazione.
    É un progetto aperto al contributo dei lavoratori, del tutto avulso da ogni logica correntizia, al di là e al di sopra delle dinamiche e delle divisioni congressuali. É il tentativo di ricucire lo strappo con la base, consumatosi con le pratiche neo-corporative degli anni del boom economico, con la società dei consumi e il mutamento della base sociale del lavoro. Può sembrare un paradosso, ma il nostro sindacato, oggi, sconta le conseguenze d'un patto sociale estremamente vantaggioso per il lavoratore, stipulato nel corso delle lotte degli anni '60 e '70. È anche il tentativo di smarcare il nostro sindacato dal discredito in cui è caduto con la politica, senza tuttavia condividerne le colpe, perché se la politica è colpevole della disaffezione del cittadino, il sindacato ha la sola colpa, almeno in parte, di dover subire un riflusso fisiologico dopo le tante vittorie del secondo dopo guerra.
    É un documento aperto, con cui la Filcams di Lucca cerca di riaprire un percorso di coinvolgimento dei lavoratori con assemblee sui luoghi di lavoro, dibattiti ed una vera e propria ricerca sul campo. Una sorta di sondaggio ragionato sugli umori, sulle critiche, i mal di pancia; sulle proposte, i suggerimenti che possono provenire dai lavoratori. 

    Intervistato da Nick Belanes. 

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