Quando aprii la porta di
casa e lo vidi seduto sulla sedia con in mano una lametta ad
armeggiare attorno alla coscia proprio all'altezza del femore, non mi
ci volle poi molto per capire che cosa era successo. Ai piedi del
tavolo, tutta intrisa di sangue, giaceva ancora la siringa con l'ago
spezzato. Poco più in là, sul pianale di marmo della cucina vicino
a un posacenere stracolmo di mozziconi e a una bottiglia avviata di
whisky, avvolta nella pagina del giornale locale, faceva capolino la
campana d'ottone della sua Martin. Quella sera lui e N. avrebbero
dovuto suonare assieme a F. in un famoso locale della zona e adesso,
come se già a rompere le scatole non bastasse questa cazzo di afa,
con la gamba conciata a quel modo sarebbe stato un vero e proprio
casino. Merda! Senza perdere un altro momento arraffai il primo
straccio che riuscii a trovare a portata di mano e iniziai a
tamponargli la ferita. S'era fatto proprio un bel taglio. Dopo
avergli ripulito per bene tutta la gamba gli chiesi come adesso
avrebbe voluto risolvere la faccenda. La punta dell'ago era ancora
dentro, lo squarcio era lungo e profondo e io gli feci notare che non
ero né un sarto e né tanto meno un dottore. Dopo aver posato la
lametta sul tavolino C. sbirciò di sottecchi la sua tromba e mi
disse: <<l'importante è non andare all'ospedale>>. Con
un marcato accento americano, anche se batteva sulla sessantina,
aveva ancora il tono della voce che profumava d'adolescenza, di belle
ragazze e di sfreccianti macchine veloci con la cappotta abbassabile.
Su questo non avevo alcun
dubbio, gli sussurrai guardandolo dritto negli occhi. Un altro di
quei titoloni sul giornale ora era l'ultima cosa di cui C. aveva
bisogno. L'ultima volta, circa una ventina d'anni prima, una faccenda
del genere era finita con un lungo periodo di ferie a San Giorgio.
Dalla porta di casa entrava una sbarra di sole grossa quanto una
trave; e mentre io me ne stavo in questa cucina con un amico
strafatto e con una gamba ridotta a brandelli tra le mani, là fuori
come se tutto questo fosse normale il mondo proseguiva a festeggiare
l'estate. Buffo, pensai. Ma non c'era un momento da perdere, il
sangue continuava a sgorgare copioso dal taglio e lo sguardo di C.,
forse per la roba o forse per il troppo plasma perduto o forse per
entrambe le cose, sembrava stesse preparando i bagagli. Dopo avergli
fasciato alla meglio la gamba con uno straccio pulito, lo trascinai
fuori di casa e lo imbarcai subito in macchina. Sistemato sul sedile
del passeggero ingranai la prima e in mezzo a nuvolaglie di
biciclette e sorridenti cosce abbronzate, mi diressi verso lo studio
del dottor Moscardini. Da lì era lontano giusto cinque minuti.
Durante il tragitto C. tolse la benda e riattaccò ad armeggiare
attorno allo squarcio a caccia del piccolo inquilino d'acciaio; e
dopo avermi ribadito ancora una volta di non voler essere portato per
nessuna ragione al mondo all'ospedale, mi disse di stare tranquillo
che nella sua vita ne aveva passate di peggio. Come quando quella
volta in America un nero a cui doveva dei soldi gli fracassò la
bocca con una sassata e dovette così imparare a suonare la tromba
senza i denti davanti. Queste sono mica cazzate, altro che un aghetto
troncato in una gamba. Arrivati allo studio del dottor Moscardini
parcheggiai la mia 126 e lo aiutai a scender di macchina. La ferita
era stata riattizzata e la gamba di C. era nuovamente tutta sporca di
sangue. Nonostante la cappa dell'afa, magliette sudate e appiccicate
alla pelle e odore dolciastro nelle narici, erano le uniche due cose
che quel giorno non avevo messo nel preventivo. Quel pomeriggio morso
dal sole di luglio -pur se quelle non erano le spiagge della Pacific
Coast Higway- infatti lo ero andato a trovare per dirgli soltanto se
voleva venire al mare per darsi una rinfrescata e bersi una birra. E
invece, dopo neanche dieci minuti, mi ritrovai a bussare come un
forsennato all'ambulatorio del dottor Moscardini coi colpi che
rimbombavano cupi a mo di mitraglia nel vuoto dello studio. Non c'era
proprio nessuno, nemmeno un paziente. Tutti, compresi i virus e i
germi, avevano ben ragionato d'andarsene al mare. O meglio: tutti
tranne C.B. Stufo di star a sbucciarmi inutilmente le nocche su una
porta di legno massello e stanco di veder C. rantolare attorno ai
brandelli di quel cazzo di taglio, abbassai la maniglia e di peso lo
trascinai dentro. Ma non feci neanche due passi e subito m'accorsi
che quel pomeriggio avevo decisamente tutto l'oroscopo contro:
ubriaco come una giubba il dottor Moscardini ronfava sdraiato braccia
a croce sopra la lettiga del suo ambulatorio neanche fosse un leone
che s'è appena sbafato un rinoceronte africano. Neppure a farlo
apposta, con una maglietta colorata e dei pantaloni bianchi di lino,
quel figlio di puttana sembrava proprio un turista. Fasciati da
due mocassini i piedi gli sbordavano fuori dalla lettiga e i raggi
del sole che filtravano dalla grossa vetrata, dopo aver rinterzato
sul bianco delle pareti, andavano a sbattergli sul viso facendogli
pure oscurare le lenti degli occhiali da vista. Cazzo, sì: pareva
proprio un fottuto bagnante. Non sapendo che fare misi C. a sedere
sopra la sedia di pelle che si trovava dietro la scrivania e
incominciai a scrollare il dottore. Niente, come morto. Al solo
pensiero che adesso sarebbe potuto entrare qualche paziente, mi misi
a ridere quasi da pisciarmi nelle mutande. Avere C.B. come medico
quando non era alle prese con la sua Martin, era sicuramente una
faccenda che non avrei augurato neanche al mio peggior nemico.
Improvvisamente però mi prese il nervoso e proprio mentre stavo
pensando di andarmene mollando lì entrambi i bastardi a smaltire da
soli i loro viaggi, vidi C. alzare al cielo la mano tutta intrisa di
sangue. Incollato sul dito indice aveva il pezzo dell'ago che
frustato dai raggi del sole brillava come un diamante. Dopo aver
tirato un sospiro di sollievo e lasciato il dottor Moscardini al suo
sonno animale, aprii la vetrina dove teneva le medicine e in mezzo a
una miriade di scatolette di pasticche e flaconi, tirai fuori un kit
da pronto soccorso. Dentro fortunatamente c'era tutto quel che
serviva: acqua ossigenata, bende, garze e cerotti. Medicai alla
meglio la ferita al mio amico e una volta alzato di peso e trascinato
nuovamente fino alla macchina, dopo qualche minuto già era bello e
che steso nel suo letto che ronfava peggio del dottor Moscardini.
Adesso finalmente potevo andarmene a fare quel cazzo di bagno al
mare. Prima di uscire di casa e rimontare sulla 126 per recarmi alla
spiaggia presi una sigaretta da un pacchetto di Marlboro che C. aveva
lasciato accanto al posacenere pieno di cicche, mi feci un goccetto
di whisky e accarezzai la campana della Martin che fuoriusciva
direttamente dalla carta stampata. Toccare con mano quell'astruso
marchingegno che tutte le sere trasformava l'angoscia in un qualcosa
di tenue, soffice e caldo come il velluto, fu un emozione che
francamente non so riportare nero su bianco. Con la colonna
vertebrale scossa da un milione di piccole scariche elettriche che mi
s'irradiavano lungo tutti i muscoli del corpo uscii di casa, per
farvi poi ritorno con N. solamente qualche ora più tardi.
L'orizzonte del cielo infiammava d'arancio e una sottilissima brezza
di grecale ridonava al mondo e agli abiti svolazzanti delle signore
un po' di quella frescura che il sole gli aveva tolto durante tutta
l'intera giornata appena trascorsa. Trovammo C. già pronto con la
Martin ancora avvolta nella carta del giornale sotto braccio. Aveva
l'aria riposata e tranquilla come se anziché essersi fatto una pera
e sbranata una gamba con una lametta da barba, fosse quel pomeriggio
davvero venuto al mare con me a farsi un bagno e a bersi una birra.
Andammo così a mangiare nella solita pizzeria sul Viale a Mare dove
F. ci stava già aspettando da quasi mezz'ora. Al tavolino, dentro il
locale pieno di gente, di quanto avvenne quel pomeriggio io e C. non
ne facemmo parola. Mai i fatti fin qui raccontati sarebbero entrati a
far parte di una delle tante biografie a lui dedicate, scritte e
pubblicate dopo la sua morte. Poi dopo circa un'oretta, sotto un
cielo fresco e trapuntato da stelle lucenti e affilate come milioni
di gemme, C., N. e F. salirono sul palco davanti a una folta e
abbronzata platea agghindata in succinti abiti a fiori. E il soffio
profondo dell'anima di C.B. consegnò un'altra serata alla storia.
..un soffio veramente magico, quello di C. B.
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