È vero, paragonare sic et simpliciter il Movimento 5 Stelle (M5S) al fascismo, seppur soltanto a quello della prima ora, è un'operazione insincera; eppure rimane il fatto che questi due movimenti sembrano avere diversi punti di contatto. Naturalmente, non nel dettaglio dei programmi seppure all'origine entrambi molto avanzati, per la loro epoca. Quanto al leaderismo, poi, non bisogna lasciarci ingannare dalle traversate marittime, il superomismo incarnato da Mussolini è veramente cosa d'altri tempi. Eppure, se diamo uno sguardo alle trasformazioni che ha subito il nostro paese negli ultimi trentacinque o quarant'anni, forse qualche elemento in più può venirci in aiuto per capire da una parte l'origine del M5S e dall'altra, se ce ne sono, le somiglianze con il movimento fascista; può aiutarci a capire la ratio di quei punti di contatto.
Prima di iniziare questa disamina, vorrei premettere che questo è solo il tentativo di dare un primo inquadramento al Movimento 5 Stelle, una prima approssimazione. Non ha alcuna pretesa di esaustività e neppure di “verità”, ma la volontà di sgomberare il campo almeno da alcuni misunderstandings verificatisi a sinistra..
Intanto una certezza, il M5S è qualcosa di radicalmente nuovo per la nostra epoca – non in termini assoluti, naturalmente, ma per certe sue caratteristiche, come la capacità di utilizzare e riutilizzare nuove e vecchie piazze. Ed è fuor di dubbio che molte delle istanze di cui si fa portatore sono genuinamente popolari, generate sia dal malcontento diffuso per una gestione della cosa pubblica che ha del dilettantesco e, al contempo, del criminale, sia dalle conseguenze che questa gestione ha causato. Ma ciò non è ancora abbastanza per poterlo decifrare nel suo complesso. Il movimento di Grillo, infatti, vive ancora la sua fase, per così dire – ma prendete il termine cum grano salis – “rivoluzionaria”. Come ogni movimento che nasce con le masse, o che le “strumentalizza”, conosce una prima fase di impeto che rischia di giungere sino al parossismo (ne è un esempio recente la Lega di Bossi), per poi decantare e liberarsi degli elementi più incontrollabili e raggiungere, infine, una fase in cui le spinte rivoluzionarie si cristallizzano in pose e slogan capaci di dare, nei momenti di crisi di consenso, l'energia ai “colpi di reni” – se ancora si ha a che fare con un movimento vitale – oppure ai “colpi di coda” – quanto la sua funzione si è ormai esaurita ma i suoi aficionados ancora non si rassegnano ad una fine inevitabile.
Il termine “strumentalizzare” non deve essere inteso, qui, nella sua accezione negativa – e moralistica – ma nella sua accezione funzionale. Dicendo che il M5S o Grillo hanno strumentalizzato, assumendone certe istanze, le masse popolari, non intendo sostenere che ciò sia avvenuto in maniera meno che limpida o per chissà quali recondite ragioni; intendo semplicemente dire che, chiunque sia a farsi capopopolo, questi farà uso per i suoi fini – poco importa se sono i più nobili o se sono condivisi da un intero popolo, da un'intera classe o nazione – della spinta popolare organizzandola e dirigendola. É il problema sempre ricorrente della direzione delle masse: da una parte le masse riconoscono un capo – non potendosi gestire autonomamente neppure per mezzo delle nuove tecnologie – quando vi vedono il “buon pastore” o, se vogliamo, il condottiero senza macchia o, meglio ancora, e da un punto di vista semantico più “corretto” perché più vicino all'etimo, il duce che da parte sua ne assume la guida spinto da ambizioni che sempre, almeno in parte, corrispondono alle aspirazioni delle masse. Ciò avviene, quindi, quando c'è condivisione fra il capo e le masse, cioè quando il demagogo usa argomenti convincenti perché condivisi a prescindere dalla provenienza del primo dalle seconde. E a prescindere, ovviamente, dal fatto che quella condivisione comprende anche l'adesione personale e personalistica del duce a quei fini; e a prescindere, infine, dal fatto che quella condivisione di fini non sia, o non diventi, viepiù meno perfettamente coincidente.
La mia intenzione, quindi, non è quella di trovare un pretesto per comparare fascismo e grillismo, al fine di contribuire al discredito del secondo, ma di mettere in luce i punti di contatto per poter meglio conoscere, per mezzo della comparazione con un fenomeno simile e che già conosciamo, il M5S. Visto che innegabilmente qualche somiglianza c'è, perché non intraprendere sino fondo questo tentativo?
Entrambi i movimenti si sono presentati, ognuno per la sua epoca, come movimenti fortemente progressivi. Si pensi, per il movimento dei fasci di combattimento, al loro programma per le elezioni del 1919. Oltre al suffragio universale con voto ed eleggibilità per le donne si pensi alla giornata lavorativa di otto ore o alla proposta di una imposta fortemente progressiva sul capitale oppure, infine, alla partecipazione delle organizzazioni proletarie al funzionamento tecnico delle industrie. Per il M5S è appena il caso di citare la forte spinta, quasi avveniristica, ad una razionalizzazione dell'intero comparto energetico o la lotta al monopolio dell'informazione o la spinta, almeno ideale, verso una democrazia diretta.
In Entrambi i casi, tuttavia, non mancano neppure elementi caratterizzabili come retrogradi o apertamente reazionari. Per il programma fascista del '19, ad esempio, c'è il richiamo ad una valorizzazione, in politica estera, dell'italianità che nel programma del '24 diviene qualcosa come la magnificazione della Nazione: “non... la semplice somma degli individui viventi né lo strumento dei partiti pei loro fini, ma un organismo comprendente la serie indefinita delle generazioni di cui i singoli sono elementi transeunti... la sintesi suprema di tutti i valori materiali e immateriali della stirpe” (corsivo mio). Anche nel grillismo il suolo nazionale sembra avere carattere sacro con il rifiuto dello ius soli come criterio per l'attribuzione della cittadinanza. Altro elemento retrogrado è quella forma di malcelato ed ipocrita interclassismo nazionalista quando si tratta di devolvere parte degli emolumenti dei deputati in favore delle micro imprese, fonte di quel nanismo industriale che tanto affligge la nostra economia. Ma un passo indietro è costituito anche dalla proposta di abolire ogni forma di finanziamento pubblico dei partiti e delle testate giornalistiche. Infatti, il pluralismo – ivi compreso l'accesso alla politica – non hanno che da beneficiare da un sistema di finanziamento dei partiti e delle testate giornalistiche che li metta in condizione di non dover dipendere, per il loro finanziamento e funzionamento, dai gruppi di potere e di interesse.
Ciò detto, è necessario chiederci quale sia la natura del M5S. Per farlo, credo che in primo luogo sia necessario porci la domanda “da dove genera?”, “da dove promana?”, quali sono, cioè, i fenomeni sociali, economici e culturali che ne hanno permesso la nascita? Naturalmente, per definire in maniera adeguata il percorso compiuto dalla società italiana perché si formasse l'umus da cui è germinato il movimento oggetto di questa analisi, sarebbe necessario ben più che qualche pagina, ma al momento il nostro interesse non va tanto più in là. Daremo quindi per scontato parecchio di quanto costituisce quell'umus. Diremo, però, innanzitutto che sarebbe un errore attribuire l'origine del M5S ad una pura e semplice reazione agli anni del berlusconismo, a quel misto di dilettantismo e arroganza che lo ha caratterizzato, e neppure sarebbe corretto identificarlo con un puro e semplice sentimento di rivalsa nei confronti di una classe politica corrotta e incompetente, così pure come conseguenza della sovraesposizione dei social forum. Il fenomeno del grillismo non affonda le sue radici neppure negli scandali dei primi anni '90 ma vanno rintracciate a partire dalla seconda metà degli anni '70 del secolo scorso. A partire da quegli anni, infatti, si assiste ad un mutamento radicale nella base sociale del lavoro italiano. Se nel 1977 i lavoratori dipendenti dei servizi e quelli dell'industria erano rispettivamente 6 milioni e 500 mila e 6 milioni e 600 mila, con un rapporto pari a 0,98, nel 2011 con, rispettivamente, 11 milioni e 600 mila e 5 milioni e 200 mila lavoratori, quel rapporto è divenuto di 2,23. Ciò significa che se negli anni '70 ad ogni lavoratore dell'industria ne corrispondeva uno dei servizi oggi gliene corrispondono due.
Come si può capire anche da questi pochi dati, la società italiana è cambiata radicalmente e profondamente e se scendiamo più nel dettaglio riusciremo anche a capire in quale direzione. Infatti, se la classe operaia rappresenta quella parte della società che storicamente ha sperimentato una forte coscienza di classe, forti legami solidaristici e identitari, ed ha saputo volgerli ad una conflittualità fiera, orgogliosa, consapevole del proprio ruolo, se da sempre rappresenta anche una sorta di autosufficienza – si pensi all'ideale socialista del governo dei produttori – nelle quasi classi che rappresentano, invece, e seppure con distinguo ed eccezioni corpose, l'insieme dei lavoratori dei servizi – vale a dire, da una parte, la piccola borghesia e dall'altra una sostanziosa porzione del sottoproletariato – si annida quella porzione della società italiana, detentrice di quel gretto e miope individualismo che ha fornito, nel primo dopo guerra, la base di massa per lo sviluppo del movimento fascista. Spingendoci ancora più in là, forse con un tantino d'azzardo, è possibile porre in parallelo il senso di frustrazione causato dall'insuccesso della Conferenza di pace di Parigi – la “vittoria mutilata” – e la disillusione seguita al brusco risveglio dal sogno d'una economia del benessere diffuso. Spesso, negli scorsi anni, ci siamo sentiti, e ci hanno fatto sentire, come i commensali alla pari alla mensa della società capitalistica, senza accorgerci che tanta abbondanza aveva il solo scopo di abbassare il livello di scontro del conflitto di classe; era un patto: il patto neo-corporativo. Un banchetto al quale, sin dalla metà degli anni '70, le classi egemoni hanno cominciato a far mancare i rifornimenti ed oggi, che la nostra sazietà è ormai un ricordo, a poco a poco si fa avanti un senso di frustrazione profondo aggravato dall'accusa d'aver ipotecato noi il futuro dei nostri figli. La reazione non poteva tardare a farsi sentire ed ha preso la forma d'un indiscriminato rifiuto della politica e di tutto quanto la rappresenta; e così come il fascismo sembrò lo strumento più adatto per liberarsi da una politica di corruttele e clientelismo – quale fu quella del vecchio liberalismo giolittiano – oggi il M5S si staglia nel cielo terso d'una nuova palingenesi piccolo borghese.
Paradossalmente, il movimento di Grillo, anziché rappresentare un movimento rivoluzionario rischia di costituire il compimento in Italia di quella “rivoluzione passiva” che, a partire dal primo ministero di Margaret Tatcher nel 1979 e dall'elezione di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti nel 1981, cerca di ristrutturare i rapporti di produzione su scala globale.
É vero, quindi, che paragonare sic et simpliciter grillismo e fascismo significa fare un'operazione ipocrita, ma credo sia anche molto pericoloso vedervi quella carica rivoluzionaria che semplicemente non possiede. É ancora presto per capire dove ci porterà. Dovremo attendere la sua istituzionalizzazione, o normalizzazione se volete. Solo allora avremo la possibilità di capire realmente con chi ci troviamo e ci troveremo a che fare. Solo allora potremo prendergli le misure ma, si badi, a quel punto potrebbe essere tardi.
di Andrew Dok.
concordo : potrebbe esser tardi......
RispondiEliminaComunque è "ius soli" e non "ius solis". Parlar come si mangia, no eh? :)
RispondiEliminaTutto qui?
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