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Blog perverso e polimorfo, abitato da forme di vita aliene e virulente: siamo portatori insani del virus del pensiero diagonale.

domenica 24 marzo 2013

PRIMAVERA A MASSAROSA


Non so a cosa pensasse mentre lentamente saliva le scale. Come tutte le mattine indossava la solita maglia di cachemire con sotto la camicia acquistate sicuramente ai saldi di qualche grande magazzino. Capelli bianchi e riportati in qua e là a tentare di coprire i vuoti lasciati dal passare del tempo, tra i cinquantacinque e i sessanta, il professor Carminati teneva sotto braccio la sua vecchia cartellina di cuoio con dentro le verifiche appena corrette. Cose semplici, domande del tipo: what is your name? How old are you? What are you doing? The teacher’s car is red, eccetera. Una vera strage, specialmente sul gerundio progressivo e il genitivo sassone. Durante la correzione la punta rossa della stilografica era passata sopra le calligrafie ancora deformate dei suoi alunni, con l’impietoso menefreghismo della lama di una ghigliottina. Nel silenzio ovattato dell’istituto appoggiò la cartella sul davanzale della finestra del primo piano, l’aprì e si accese una sigaretta. Mentre un caldo sole primaverile gli invadeva le membra, il suo sguardo andò a posarsi sulla sua nuova berlina accuratamente parcheggiata fuori dal cancello della scuola. Notò con piacere che baciata dal sole di maggio, il rosso metallizzato della carrozzeria risplendeva come una palla di fuoco. Il sogno di tutta una vita. Lui che a certe forme ci aveva sempre tenuto, tra una boccata di fumo e l’altra, intanto che aspettava l’inizio della seconda ora, fece scivolare la mano sotto la maglia di cachemire e si allentò il nodo della cravatta. «Buon giorno professor Carminati.» sentì quasi rimbombare una voce alle sue spalle. Voltando appena la testa accennò un sorriso e dopo averla salutata con un leggero movimento del capo, vide sfilar via la supplente della professoressa d’italiano. Era una ragazza giovane, paffutella, non tanto alta, coi capelli neri riportati all’indietro in una lunga coda di cavallo e una vistosa collana di pietre verdi che lasca le ballonzolava sul petto. Non aveva alcun tipo di grazia, secondo il professore, proprio come quei sandali e quel lungo vestito dal sapore vagamente orientale che aveva indosso. Vedendola zampettare in tutta fretta verso le aule del secondo piano con una risma di fogli protocolli stretti al grembo, Carminati sentì un senso di disgusto invadergli le membra. I suoi sensi percepirono quella figura molto simile a una madre che allatta un bambino in pubblico, come un qualcosa di sporco. Aspirando con rabbia la sigaretta tornò così a guardare la sua palla di fuoco e subito ritrovò la calma. Dopo anni di sacrifici e risparmi, finalmente era riuscito a comprarsela pagandola tutto d'un botto. Tra qualche mese, quando poi avrebbe sintetizzato con un numero scritto sopra un foglio da appendere in bacheca tutte le frustrazioni, lui e sua moglie avrebbero preso e sarebbero sfrecciati ad abitare per qualche tempo nella loro villetta in montagna. E chi si è visto si è visto. Lui sì che era una persona tutta d’un pezzo, mica come quella precaria col tonacone che gli era appena passata davanti! A quella in una concessionaria non le avrebbero neanche fatto varcare la soglia. Conciata a quel modo era già tanto se aveva un tetto sopra la testa e una bicicletta per spostarsi e andare a lavoro. Dal suo collega di matematica infatti era venuto a sapere che, assieme ad un’altra ragazza, divideva l’affitto di un bilocale che avrebbero dovuto lasciar libero con l’approssimarsi della stagione estiva. Ad andar bene era anche lesbica. Una cosa vergognosa, continuava a rimuginare il profesor Carminati. Io alla sua età mica avevo i grilli per la testa, oltre ad avere una moglie e due figli, mi ero già comprato la casa e la mia prima automobile. Tutto a un tratto, facendolo quasi sobbalzare, il suono metallico della campanella strappò la prima ora e un monellesco brusio di voci invase subito il corridoio. Come un automa, con la stessa lena di un operaio svogliato che si appresta a stringere per la milionesima volta il solito bullone, il professore gettò via il mozzicone della sigaretta, chiuse la finestra e con la sua cartella di cuoio sotto braccio s’incamminò verso la II^ C. Al di là della porta ancora chiusa, sovrastata dagli schiamazzi dei ragazzi, a stento riconobbe la voce del suo collega di tecnica che stava elargendo i compiti per casa alla classe. Dopo qualche istante la porta si aprì e Carminati si trovò davanti agli occhi la mastodontica stazza del professor Morosini. Alto quasi due metri, con la barba incolta e i capelli lunghi fin sotto le scapole, questi lo salutò appena con un cenno del capo e poi corse subito via. Un altro di quegli scansa fatiche pieni di grilli per la testa, pensò il professore d'inglese mentre con cipiglio austero guadagnava il suo trono dietro la cattedra. La classe intanto si era zittita di colpo. Come un sergente che passa in rassegna un plotone di piccoli soldati, Carminati squadrò la sua truppa di sentinelle tutte impettite e sugli attenti. «Sedetevi.» disse aprendo la sua cartellina di cuoio. Accompagnati dal suono stridulo dei gambi delle sedie sul pavimento, i militari si sistemarono subito al loro posto di combattimento. I più bravi, quelli delle prime file, avevano già fatto il cambio dell’arma e tenevano aperto sul banchino il libro e il quaderno d’inglese. Questi gli erano anche simpatici, specialmente dopo aver visto i loro genitori venirli a prendere a scuola col SUV o la berlina di grossa cilindrata. Loro, al contrario di quelli delle ultime file che erano per lo più figli d'immigrati e d'operai, sicuramente avrebbero avuto un futuro brillante. «Vi ho riportato le verifiche.» ghignò l’insegnante lanciando lo sguardo sarcastico in piccionaia . «E come sempre tranne i soliti quattro o cinque, tutti gli altri hanno preso la solita insufficienza.» Con fare meccanico e rilassato Carminati prese a chiamare gli allievi, uno per uno. Approfittando del momento d’inerzia dell’insegnante, dalle ultime file iniziò a sollevarsi un leggero brusio. Un gruppetto di ragazzi quel pomeriggio era stato invitato a casa di Revi per il suo compleanno. Niente bigliettini d’invito stampati al computer, niente stanze prese in affitto, niente palloncini o clown per intrattenere il piccolo pubblico. La festa, spiegava Revi con una certa fierezza, sarebbe iniziata alle tre a casa sua, ci sarebbe stato il dolce fatto da sua madre e la bibita del supermercato. Poi tutti a giocare a pallone nei campi.
«Io sono ragazza, non giocare a pallone.» sussurrò la piccola Matoub nel suo italiano stentato.
«Allora la mettiamo in porta.» disse Lisimanni, il suo compagno di banco, sporgendosi leggermente col busto verso la nuca che aveva davanti.
«Va bene.» confermò il festeggiato. «Però io voglio essere in squadra con Martins, lui è brasiliano. Cinque titoli mondiali...»
«SILENZIO!» tuonò d’un tratto il professor Carminati battendo il pugno sopra la cattedra. «Tu Matoub cosa hai da dire che non riesci neanche a parlare l’italiano. tornatene al tuo paese!»
Il gelo scese sopra la classe. La piccola Matoub, ormai abituata a certe scenette, si alzò in piedi e con uno strano sorriso dipinto sul volto chiese scusa a tutta la classe. Il professor Carminati, sentendosi offeso da questo atteggiamento a dir suo irriverente, andò su tutte le furie.
«Come ti permetti di sorridere!?» iniziò a sbraitare alzandosi dalla cattedra. Poi in un silenzio tombale, scese dal piccolo pulpito e a grandi falcate iniziò a percorrere il corridoio tra le due file di banchi.
«Lei è una sporca testa di cazzo.» sentì dire ad un certo punto. Carminati si irrigidì di colpo, come un manganello. Col volto contratto in una maschera fatta di odio e terrore riconobbe d’acchito la vocina che gli era appena sibilata alle spalle. Subito, come un computer impazzito, allora le fece la radiografia: Ghirlandi, ripetente, padre disoccupato e iscritto al sindacato, madre casalinga e lavoratrice ad ore. Macchina... macchina, una vecchia vecchia FIAT Panda tenuta assieme col fil di ferro. Poi, con la bocca contratta e dopo aver inspirato profondamente col naso, gridò: « Ghirlandi, adesso io e te andiamo dal preside!» A sentir quelle parole la ragazzina fece stridere i gambi metallici della sedia sul pavimento e si alzò subito in piedi. Tesa, col capo chino e lo sguardo basso, i lunghi capelli corvini le ricadevano davanti coprendole il volto. Indossava una maglietta rosa con sopra disegnata una scimmietta, un paio di pantaloni di jeans e a stento riusciva a trattenere il tremore del corpo. Sotto gli sguardi attoniti dei suoi compagni di classe, Carminati la prese malamente per mano e con passo da marcia, la costrinse a seguirla fuori dalla porta, nel corridoio, oltre l’androne delle scale e poi giù fino all’ufficio della presidenza. La ragazzina, scortata dal nervoso ticchettio dei passi che rimbombavano nel vuoto dell'istituto, però tutto sommato -a parte l'imbarazzo iniziale- non aveva paura.
Quando vedi qualcosa d’ingiusto ribellati, sempre...” gli dicevano di continuo i suoi genitori. “Al resto poi pensiamo noi grandi.”
E con questa oscura certezza nel cuore, la piccola Ghirlandi alcuni minuti dopo si trovò di fronte al preside, un ometto basso e magro, col cranio raso e la mascella leggermente squadrata. Intanto che con una strana e a lei sconosciuta voce melliflua il professor Carminati illustrava al proprio superiore la propria versione dei fatti, la ragazza, ancora col capo chino e i capelli sugli occhi, si guardava intorno con aria smarrita. Forse, visto che sui libri di scuola certe cose non le trovava mai scritte, proprio in quella circostanza capì per la prima volta che cosa intendessero dire suo padre e sua madre. Allora si fece forza e col suo sguardo di ragazzina iniziò a sbirciare il volto austero del preside, il fare succube dell’insegnante, i fogli perfettamente impilati sulla scrivania e racchiusi dentro a tante cartelline di cartone colorate. Appese alle pareti riconobbe le fotografie del Presidente della Repubblica e del nuovo papa, quello eletto da poco e di cui non riusciva mai a ricordarne il nome. La litania del professor Carminati continuava quasi con cadenza liturgica e lei, ancora di sottecchi, andò con lo sguardo oltre la finestra aperta dietro alle spalle del preside.
«Ghirlandi, certe cose non si fanno!» tuonò il preside, appena il professore
ebbe finito di parlare. «Verrai sospesa per tre giorni e quando rientri mi porti questo firmato da tuo padre e tua madre. Ma che razza di educazione ti han dato i tuoi genitori!?» Nel prendere il foglio che il sig. preside le stava porgendo da dietro la scrivania, un dolce odore di fiori le invase le narici. Alzando la testa, molto diversa da quella con cui suo padre ogni mattina l'accompagnava a scuola, Ghirlandi vide una macchina rossa simile a una palla di fuoco e poco più il là, nel giardino dell’istituto, tra un altalena e una giostra ormai in completa balia della ruggine, s’accorse che le piante e l’erba finalmente eran fiorite. A Massarosa finalmente era esplosa la primavera.

mercoledì 13 marzo 2013

ANGELA RITA LOLLI: DOCENTE UNIVERSITARIA.



A voci dalla Piazza Angela Rita Lolli, tra le altre cose, ci parla di cultura, politica e sindacato. Buon divertimento!

  1. Ciao Angela, parlaci un po' di te, cosa fai nella vita?
    Insegno storia moderna all'Università. Sono appassionata di Letteratura italiana e di Dante in particolare.

  2. Verso la metà degli anni '30 Cesare Pavese divenne direttore della rivista “Cultura”. Oggi se fosse ancora vivo, secondo te, che cosa avrebbe scritto l'autore del “il carcere” a proposito della nostra classe politica?
    Avrebbe detto che ci sarebbe stata una crosta dura da rompere. Oggi è impossibile paragonare la politica, quella vera, ai grandi statisti di una volta, quelli capaci di scrivere un'intera Costituzione.

  3. Secondo te i grandi programmi televisivi di massa come “Amici” e “il grande fratello”, in che maniera hanno inciso sulla cultura e la memoria storica del nostro paese?
    Il verbo mediatico oramai ha sostituito l'antico vocabolario, trascinando le masse, specialmente quelle giovanili, ad un imbarbarimento della parola e della cultura senza precedenti.

  4. Tutte le crisi che hanno attraversato il mondo nel corso dei secoli, sono quasi sempre sfociate in eventi “grandiosi” che hanno portato poi a regimi totalitari. Se trasportiamo questo ragionamento nel campo della cultura, rotocalchi televisivi come quelli sopra citati e che ad ogni puntata tengono inchiodati davanti al televisore milioni di spettatori, sono per te crisi o eventi “grandiosi” che poi porteranno anche per quanto riguarda la cultura a un regime totalitario?
    Io li considero dei fenomeni che all'inizio potevano sembrare rivoluzionari, ma che col tempo si sono dimostrati fallaci, nell'esatto istante in cui il nulla è venuto alla luce. Come per i regimi totalitari senza la massa, ovvero il popolo adorante, anche questi programmi non si sarebbero mai mascherati da eventi grandiosi grazie all'audience. Ma tutto ciò ha determinato una crisi culturale, dominata solo dal sogno irrefrenabile di avere successo, non importa a quale prezzo.

  5. In “scritti corsari” Pasolini parlava della nascita di un nuovo potere completamente sconosciuto anche alla classe politica degli anni '70 e che in breve tempo avrebbe soppiantato ogni cosa. Il potere economico. In un mondo di chiaro stampo neo-liberista come lo è quello di oggi e dove il profitto regna sovrano su tutto, da un punto di vista prettamente pragmatico ha ancora senso discorrere di destra e sinistra? Se si, qual'è questo senso?
    Avrebbe senso parlare di destra e sinistra alla luce di un dialogo proficuo. Ma ciò che sta accadendo oggi non permette più un ragionamento di questo tipo, vuoi per il grande potere oramai concentrato nelle banche, vuoi per un vuoto politico allo sbando.
  1. Visto le gravose condizioni in cui grava il “sistema scolastico”, secondo il tuo punto di vista è ancora possibile nel nostro Paese una rinascita socialdemocratica della cultura?
    La rinascita sarebbe possibile solo con il lavoro da parte di tutti, un lavoro di insieme
    per ritornare a dare respiro ad una cultura boccheggiante da anni, nonostante gli sforzi di pochi eletti. Purtroppo la cultura è uno dei settori fortemente penalizzati da politiche scellerate che hanno soffocato ogni possibilità di rinascita. Senza cambiamento è difficile parlare di cultura.

  2. Pur se con molti problemi e con alcune forti contraddizioni la Cgil negli anni '70 pareva riuscire a rappresentare in maniera adeguata i lavoratori oltre che al tavolo delle contrattazioni anche da un punto di vista culturale. Oggi è sempre così o le cose sono cambiate?
    Le cose sono cambiate, siamo in balìa di un sindacato che sembra essere diventata una lobby interessata esclusivamente al proprio profitto piuttosto che a quello dei lavoratori. Senza un'adeguata guida che riporti il sindacato ai valori di una volta non vedo soluzione.

    8) Secondo le tue esperienze nel campo lavorativo, il sindacato di oggi riesce a rappresentare anche i precari e i disoccupati?
    Pur sforzandosi di farlo, vedo sempre più un sindacato disamorato delle sue stesse iniziative. Non c'è più un collante e chi ci rimette sono proprio precari e disoccupati.

    9) Cos'è per te la Memoria?
    La Memoria è la nostra Storia, il ricordo su cui si fonda ogni esperienza vissuta nel nostro Paese.

    10) E l'Amore?
  3. L'Amore è la Persona. Senza se e senza ma.

    Intervistata da Nick Belanes.

martedì 12 marzo 2013

NICOLA BIBOLOTTI: ERETICO PERTINACE, LAVORATORE PRECARIO, POETA.



"Non lo so, so soltanto che una mattina ho aperto gli occhi e ho detto: voglio scrivere un libro". A voci dalla Piazza lo "scrittore" Bibolotti Nicola ci parla di spiritualità, musica rock e di altre faccende. Buon divertimento!

  1. Ok Nicola, presentati.
    Sono un uomo di 41 anni che ha lavorato 14 anni dentro ai cantieri navali della darsena viareggina, dove ne ha viste di cotte e di crude. Dal 2010, cioè da quando ho perduto il lavoro a causa della crisi, pure io come altri milioni di lavoratori di questo Paese mi trovo a fare i conti col precariato. In questo lungo periodo ho fatto di tutto, dal bagnino al magazziniere per una nota catena di supermercati tedesca per poi terminare (sempre con contratti a scadenza) con l'operatore ecologico.
    2)Credi in Dio? E se un Dio tu dovessi incontrarlo veramente, cosa gli diresti?
    Anche se non vado quasi mai in chiesa, non frequento manifestazioni religiose e credo che nel mondo di oggi i termini bigotto e cattolico altro non siano che sinonimi, io ti rispondo di sì. Mi viene in mente a tale proposito una canzone dei Megadeth -che non sono certamente dei prototipi di cattolicità- la quale più o meno testualmente recita: “cosa dici che io non credo in Dio, quando parlo con lui ogni giorno”. Penso fermamente che quello strano marchingegno che tutti chiamano Dio sia un qualcosa d'impalpabile che ogni uno di noi si porta rinchiuso in quel cassetto che si trova in fondo alla propria anima. Una specie di seme, tanto per intenderci. Metabolizzata questa consapevolezza poi si tratta solamente di trovare la chiave, aprire il tiretto e cominciare la coltivazione. Tale chiave il sottoscritto l'ha trovata nella letteratura e ogni racconto che vien fuori -bello o brutto ha poca importanza-, altro non è che un profondo dialogo con Dio.
  2. Parlaci del tuo romanzo “L'undicesimo comandamento”.
    Ti ringrazio molto di aver paragonato “l'undicesimo comandamento” a un romanzo; ma se mi metto lì e inizio a pensare alle opere di Pavese, Silone, Pratolini (per non considerare poi i romanzieri dell' 800), allora per non piangere mi viene da ridere. Quelli sono “i romanzi”!. Io, come ho scritto nella nota introduttiva del libro, metto soltanto nero su bianco delle emozioni sforzandomi poi di collegarle l'una con l'altra proprio come si fa coi monili di una collana.
  3. I personaggi che popolano le tue storie sono personaggi positivi, ma vivono ai margini. Non credi che di questi tempi la gente abbia piuttosto bisogno di sogni, che di guardare in faccia la realtà, per quanto mediata da una narrazione?
    Per sognare bisogna stare ai margini. Per forza di cose. Ti faccio un esempio: se te ti trovi a danzare al centro da una pista da ballo durante una festa, come fai a vedere cosa fanno i camerieri o i baristi o soltanto anche gli altri ballerini in fondo alla sala? Non riesci perché sei attivamente e materialmente impegnato nel fare un qualcosa; un qualcosa del tutto simile o uguale a quello che in quel preciso momento sta facendo il tuo vicino. Standotene ai margini della pista invece puoi vedere tutto: il ballerino scatenato, quello bravo o quello impacciato, il barista che prepara le bevande, il cameriere che le serve e i butta fuori che vigilano girando all'interno del locale...ecc. Standotene tranquillo seduto sopra una sedia con in mano una bella birra gelata e non avendo proprio un bel niente da fare, tu invece riesci a metabolizzare tutto questo e magari (così tanto per ingannare il tempo), proiettandolo e trasponendolo in una realtà che non necessariamente può o deve essere la solita che stai vivendo in quell'istante, allora riesci a costruire una storia interessante che può anche rispecchiare fedelmente gli accadimenti realmente avvenuti all'interno del locale, ottenendo così un prospetto dell'intera serata. Leonardo Sciascia, a modo suo e con qualche accezione dovuta agli argomenti trattati nelle sue opere, credo ne sia un esempio lampante. Il problema a mio avviso è che la gente vuol sempre sentirsi al centro della faccenda e vivere la festa come protagonista.
  4. Con il termine “nazional-popolare” Gramsci identificava una categoria del tutto assente dall'Italia giolittiana prima e fascista poi, quella di una letteratura capace di affrancarsi dalla provincia senza per questo diventare cosmopolita e al soldo di ogni padrone, e al contempo di quell'intellettuale che sorgendo dalle classi popolari ne sapesse educare il senso estetico. Oggi le cose sono notevolmente cambiate, ma quella mancanza non è stata colmata o sbaglio? Sapresti indicarmi il nome di qualche autore del genere e il perché lo ritieni tale?
    Hai ragione, questa mancanza non è stata colmata vuoi per le regole dettate da un commercio globale sempre di più tendente al neo-liberista-selvaggio; vuoi per l'operato delle piccole case editrici che dovendo far tornare i conti a fine mese sono costrette a dover operare (magari anche loro malgrado) secondo i diktat voluti da quel mercato di cui ho appena parlato; e vuoi anche perché alla gente che conta i libri han sempre fatto paura. Mi vengono in mente due autori che sono stati capaci d'affrancarsi dalla provincia senza per questo diventare cosmopolita e al soldo di qualche padrone o al contempo di quell'intellettuale che sorgendo dalle classi popolari ne sapesse educare il senso estetico, ovvero: Pier Paolo Pasolini e Luciano Bianciardi. I motivi a mio avviso sono due: 1) perché entrambi paradossalmente sono stati dei grandi intellettuali benestanti e “figli del popolo”; 2) perché nonostante avessero avuto tutte le carte in regola per vivere le danze da protagonisti, si sono mantenuti (vuoi anche per attitudine spirituale) ai lati della pista da ballo.
  5. In politica sei un bastian contrario, come lo sei stato nel sindacato. Vuoi continuare a nuotare controcorrente? Non sarebbe più facile lasciarsi cullare dalle onde, lasciarsi andare alla deriva?
    Guarda in tutta onestà io posso dirti che sono tutto tranne che una persona coerente. Però nonostante questo mio animo un po' bizzarro, alcune travi che sorreggono il mio pensiero sono talmente solide e ben piantate per terra che nessun terremoto o tsunami sarà mai in grado d'abbattere. Destra e sinistra non sono la stessa cosa; e chi crede nell'operato dei fratelli Cervi (e qui si torna al seme cattolico di cui sopra che incontra il comunismo facendo poi germinare il vero riformismo) non può credere in quello perpetrato dai discendenti dei loro aguzzini. E chi la vede come me non riesce nemmeno scendere a compromessi con quei partiti della sinistra sorretti ancora da un architettura di chiaro stampo stalinista (anche se mai lo ammetteranno) tipo Rifondazione Comunista o l'appena nata Rivoluzione Civile; organizzazioni queste che a mio avviso ancora ragionano e risentono dell'egemonia del vecchio PCI. Detto in una parola: sono ancora in una qualche maniera degli strumentalizzatori. Su quanto riguarda quella S.P.A buona soltanto distacco dopo distacco a garantire una carriera para-politica a qualche lavoratore stufo di avere i calli alle mani o i vestiti inzaccherati di sporco e che corrisponde al nome di CgiL, invece non voglio fare commenti. La ferita è ancora troppo fresca.
  6. Adesso farò il nome di tre personaggi, vorrei che tu mi lasciassi, in bello stile, una tua impressione per ciascuno: Sergio Marchionne; Hugo Chavez; Beppe Grillo.
    Allora....Sergio Marchionne secondo me è la materializzazione tangibile dei diktat che regolano questo mercato neo-liberista-selvaggio, un uomo che molto probabilmente non ha mai stretto un bullone in tutta la sua vita ma è fermamente convinto di essere il costruttore (o peggio ancora il proprietario) di qualsiasi autovettura o manovalanza che porti stampato sopra un cruscotto o sulla spalla di una maglietta il marchio della FIAT. Beppe Grillo oltre a essere un grande comico è la voce di un popolo che ha dimenticato da dove proviene e non sa minimamente dove sta andando. Per valutare Chavez credo parlino chiaro i valori in percentuale riguardanti la sanità, la disoccupazione e l'alfabetizzazione riguardanti il Venezuela prima e dopo la sua venuta. La conquista di una sanità pubblica, di un salario sociale minimo, l'abbattimento della disoccupazione e la sconfitta dell'analfabetismo, per un presidente di un paese come quello venezuelano, credo siano un ottimo biglietto da visita. Poi per vedere quanto era amato dalla sua gente, basta soltanto sbirciare uno dei tanti servizi che purtroppo in questi giorni trasmettono i telegiornali. E quando un capo di stato è così considerato dal suo popolo.
  7. Sul tuo avambraccio destro hai tatuato Fidel Castro; perché non Ernesto “Che” Guevara?
    Perché ormai il “Che” lo hanno tatuato sul corpo anche i cani e i porci. E poi anche perché, al contrario di Guevara, Fidel è stato un personaggio a torto demonizzato da tutto l'occidente. E' pure un piccolo modo per rendergli un grammo di giustizia. Io non sono un pacifista e penso che la lotta intrapresa dal popolo cubano contro l'imperialismo americano, pur se non esente da errori tipo il totale avviluppamento di Cuba all'ex Unione Sovietica durante tutta la guerra fredda, oltre ad essere un atto dovuto all'umanità sia pure un esempio da consegnare alle future generazioni. E ogni uno le guerre le combatte con le armi e col materiale di cui dispone.
  8. Tu hai una grande passione per la musica: cos'è il rock?
    Il rock quando non viene troppo strumentalizzato dalle case discografiche è libertà.
  9. Bruce Springsteen o Santana? Janis Joplin o Patti Smith? Pink Floid o Led Zeppelin? E naturalmente, perché?
    Sicuramente, tranne Janis Joplin, nessuno di questi. Bruce Springsteen lo trovo monotono, i Pink Floid non mi appartengono culturalmente (vedi psicadelia) e i Led Zeppelin, che da un punto di vista prettamente musicale sono indubbiamente la più grande rock band di tutti i tempi, per uno strano paradosso non riesco ad apprezzarli appieno perché li trovo troppo bravi tecnicamente. In un qualche modo credo che siano stati contaminati dalla loro grande preparazione musicale........o forse questa è soltanto una scusa e gli ho ascoltati poco perché non ho mai imparato a suonare in maniera decente la chitarra elettrica. Bo?..non lo so....Patti Smith è un'artista che non ho mai incrociato lungo il percorso. Per quanto riguarda la musica rock preferisco ascoltare autori più immediati e meno leziosi, tipo: AC DC, Ramones, The Rolling Stones, Motorhead, Dogs d'Amour, Iron Maiden, la prima produzione dei Metallica, Hanoi rocks......e Janis Joplin. Me li sento più vicini.
  10. Hai scelto la strada della narrativa, ma avresti potuto scegliere quella del plettro, come hai trovato la tua strada?
    Non lo so, so soltanto che una mattina ho aperto gli occhi e ho detto: “voglio scrivere un libro”. Poi con l'aiuto di alcune persone a me carissime come Alessio e Giuliano, dopo qualche mese di gestazione, “I Resistenti” videro la luce.

    Intervistato da Andrew Dok.

domenica 10 marzo 2013

Fenomenologia del Movimento 5 stelle. Un primo approccio

È vero, paragonare sic et simpliciter il Movimento 5 Stelle (M5S) al fascismo, seppur soltanto a quello della prima ora, è un'operazione insincera; eppure rimane il fatto che questi due movimenti sembrano avere diversi punti di contatto. Naturalmente, non nel dettaglio dei programmi seppure all'origine entrambi molto avanzati, per la loro epoca. Quanto al leaderismo, poi, non bisogna lasciarci ingannare dalle traversate marittime, il superomismo incarnato da Mussolini è veramente cosa d'altri tempi. Eppure, se diamo uno sguardo alle trasformazioni che ha subito il nostro paese negli ultimi trentacinque o quarant'anni, forse qualche elemento in più può venirci in aiuto per capire da una parte l'origine del M5S e dall'altra, se ce ne sono, le somiglianze con il movimento fascista; può aiutarci a capire la ratio di quei punti di contatto.
Prima di iniziare questa disamina, vorrei premettere che questo è solo il tentativo di dare un primo inquadramento al Movimento 5 Stelle, una prima approssimazione. Non ha alcuna pretesa di esaustività e neppure di “verità”, ma la volontà di sgomberare il campo almeno da alcuni misunderstandings verificatisi a sinistra..
Intanto una certezza, il M5S è qualcosa di radicalmente nuovo per la nostra epoca – non in termini assoluti, naturalmente, ma per certe sue caratteristiche, come la capacità di utilizzare e riutilizzare nuove e vecchie piazze. Ed è fuor di dubbio che molte delle istanze di cui si fa portatore sono genuinamente popolari, generate sia dal malcontento diffuso per una gestione della cosa pubblica che ha del dilettantesco e, al contempo, del criminale, sia dalle conseguenze che questa gestione ha causato. Ma ciò non è ancora abbastanza per poterlo decifrare nel suo complesso. Il movimento di Grillo, infatti, vive ancora la sua fase, per così dire – ma prendete il termine cum grano salis – “rivoluzionaria”. Come ogni movimento che nasce con le masse, o che le “strumentalizza”, conosce una prima fase di impeto che rischia di giungere sino al parossismo (ne è un esempio recente la Lega di Bossi), per poi decantare e liberarsi degli elementi più incontrollabili e raggiungere, infine, una fase in cui le spinte rivoluzionarie si cristallizzano in pose e slogan capaci di dare, nei momenti di crisi di consenso, l'energia ai “colpi di reni” – se ancora si ha a che fare con un movimento vitale – oppure ai “colpi di coda” – quanto la sua funzione si è ormai esaurita ma i suoi aficionados ancora non si rassegnano ad una fine inevitabile.
Il termine “strumentalizzare” non deve essere inteso, qui, nella sua accezione negativa – e moralistica – ma nella sua accezione funzionale. Dicendo che il M5S o Grillo hanno strumentalizzato, assumendone certe istanze, le masse popolari, non intendo sostenere che ciò sia avvenuto in maniera meno che limpida o per chissà quali recondite ragioni; intendo semplicemente dire che, chiunque sia a farsi capopopolo, questi farà uso per i suoi fini – poco importa se sono i più nobili o se sono condivisi da un intero popolo, da un'intera classe o nazione – della spinta popolare organizzandola e dirigendola. É il problema sempre ricorrente della direzione delle masse: da una parte le masse riconoscono un capo – non potendosi gestire autonomamente neppure per mezzo delle nuove tecnologie – quando vi vedono il “buon pastore” o, se vogliamo, il condottiero senza macchia o, meglio ancora, e da un punto di vista semantico più “corretto” perché più vicino all'etimo, il duce che da parte sua ne assume la guida spinto da ambizioni che sempre, almeno in parte, corrispondono alle aspirazioni delle masse. Ciò avviene, quindi, quando c'è condivisione fra il capo e le masse, cioè quando il demagogo usa argomenti convincenti perché condivisi a prescindere dalla provenienza del primo dalle seconde. E a prescindere, ovviamente, dal fatto che quella condivisione comprende anche l'adesione personale e personalistica del duce a quei fini; e a prescindere, infine, dal fatto che quella condivisione di fini non sia, o non diventi, viepiù meno perfettamente coincidente.
La mia intenzione, quindi, non è quella di trovare un pretesto per comparare fascismo e grillismo, al fine di contribuire al discredito del secondo, ma di mettere in luce i punti di contatto per poter meglio conoscere, per mezzo della comparazione con un fenomeno simile e che già conosciamo, il M5S. Visto che innegabilmente qualche somiglianza c'è, perché non intraprendere sino fondo questo tentativo?
Entrambi i movimenti si sono presentati, ognuno per la sua epoca, come movimenti fortemente progressivi. Si pensi, per il movimento dei fasci di combattimento, al loro programma per le elezioni del 1919. Oltre al suffragio universale con voto ed eleggibilità per le donne si pensi alla giornata lavorativa di otto ore o alla proposta di una imposta fortemente progressiva sul capitale oppure, infine, alla partecipazione delle organizzazioni proletarie al funzionamento tecnico delle industrie. Per il M5S è appena il caso di citare la forte spinta, quasi avveniristica, ad una razionalizzazione dell'intero comparto energetico o la lotta al monopolio dell'informazione o la spinta, almeno ideale, verso una democrazia diretta.
In Entrambi i casi, tuttavia, non mancano neppure elementi caratterizzabili come retrogradi o apertamente reazionari. Per il programma fascista del '19, ad esempio, c'è il richiamo ad una valorizzazione, in politica estera, dell'italianità che nel programma del '24 diviene qualcosa come la magnificazione della Nazione: “non... la semplice somma degli individui viventi né lo strumento dei partiti pei loro fini, ma un organismo comprendente la serie indefinita delle generazioni di cui i singoli sono elementi transeunti... la sintesi suprema di tutti i valori materiali e immateriali della stirpe” (corsivo mio). Anche nel grillismo il suolo nazionale sembra avere carattere sacro con il rifiuto dello ius soli come criterio per l'attribuzione della cittadinanza. Altro elemento retrogrado è quella forma di malcelato ed ipocrita interclassismo nazionalista quando si tratta di devolvere parte degli emolumenti dei deputati in favore delle micro imprese, fonte di quel nanismo industriale che tanto affligge la nostra economia. Ma un passo indietro è costituito anche dalla proposta di abolire ogni forma di finanziamento pubblico dei partiti e delle testate giornalistiche. Infatti, il pluralismo – ivi compreso l'accesso alla politica – non hanno che da beneficiare da un sistema di finanziamento dei partiti e delle testate giornalistiche che li metta in condizione di non dover dipendere, per il loro finanziamento e funzionamento, dai gruppi di potere e di interesse.
Ciò detto, è necessario chiederci quale sia la natura del M5S. Per farlo, credo che in primo luogo sia necessario porci la domanda “da dove genera?”, “da dove promana?”, quali sono, cioè, i fenomeni sociali, economici e culturali che ne hanno permesso la nascita? Naturalmente, per definire in maniera adeguata il percorso compiuto dalla società italiana perché si formasse l'umus da cui è germinato il movimento oggetto di questa analisi, sarebbe necessario ben più che qualche pagina, ma al momento il nostro interesse non va tanto più in là. Daremo quindi per scontato parecchio di quanto costituisce quell'umus. Diremo, però, innanzitutto che sarebbe un errore attribuire l'origine del M5S ad una pura e semplice reazione agli anni del berlusconismo, a quel misto di dilettantismo e arroganza che lo ha caratterizzato, e neppure sarebbe corretto identificarlo con un puro e semplice sentimento di rivalsa nei confronti di una classe politica corrotta e incompetente, così pure come conseguenza della sovraesposizione dei social forum. Il fenomeno del grillismo non affonda le sue radici neppure negli scandali dei primi anni '90 ma vanno rintracciate a partire dalla seconda metà degli anni '70 del secolo scorso. A partire da quegli anni, infatti, si assiste ad un mutamento radicale nella base sociale del lavoro italiano. Se nel 1977 i lavoratori dipendenti dei servizi e quelli dell'industria erano rispettivamente 6 milioni e 500 mila e 6 milioni e 600 mila, con un rapporto pari a 0,98, nel 2011 con, rispettivamente, 11 milioni e 600 mila e 5 milioni e 200 mila lavoratori, quel rapporto è divenuto di 2,23. Ciò significa che se negli anni '70 ad ogni lavoratore dell'industria ne corrispondeva uno dei servizi oggi gliene corrispondono due.
Come si può capire anche da questi pochi dati, la società italiana è cambiata radicalmente e profondamente e se scendiamo più nel dettaglio riusciremo anche a capire in quale direzione. Infatti, se la classe operaia rappresenta quella parte della società che storicamente ha sperimentato una forte coscienza di classe, forti legami solidaristici e identitari, ed ha saputo volgerli ad una conflittualità fiera, orgogliosa, consapevole del proprio ruolo, se da sempre rappresenta anche una sorta di autosufficienza – si pensi all'ideale socialista del governo dei produttori – nelle quasi classi che rappresentano, invece, e seppure con distinguo ed eccezioni corpose, l'insieme dei lavoratori dei servizi – vale a dire, da una parte, la piccola borghesia e dall'altra una sostanziosa porzione del sottoproletariato – si annida quella porzione della società italiana, detentrice di quel gretto e miope individualismo che ha fornito, nel primo dopo guerra, la base di massa per lo sviluppo del movimento fascista. Spingendoci ancora più in là, forse con un tantino d'azzardo, è possibile porre in parallelo il senso di frustrazione causato dall'insuccesso della Conferenza di pace di Parigi – la “vittoria mutilata” – e la disillusione seguita al brusco risveglio dal sogno d'una economia del benessere diffuso. Spesso, negli scorsi anni, ci siamo sentiti, e ci hanno fatto sentire, come i commensali alla pari alla mensa della società capitalistica, senza accorgerci che tanta abbondanza aveva il solo scopo di abbassare il livello di scontro del conflitto di classe; era un patto: il patto neo-corporativo. Un banchetto al quale, sin dalla metà degli anni '70, le classi egemoni hanno cominciato a far mancare i rifornimenti ed oggi, che la nostra sazietà è ormai un ricordo, a poco a poco si fa avanti un senso di frustrazione profondo aggravato dall'accusa d'aver ipotecato noi il futuro dei nostri figli. La reazione non poteva tardare a farsi sentire ed ha preso la forma d'un indiscriminato rifiuto della politica e di tutto quanto la rappresenta; e così come il fascismo sembrò lo strumento più adatto per liberarsi da una politica di corruttele e clientelismo – quale fu quella del vecchio liberalismo giolittiano – oggi il M5S si staglia nel cielo terso d'una nuova palingenesi piccolo borghese.
Paradossalmente, il movimento di Grillo, anziché rappresentare un movimento rivoluzionario rischia di costituire il compimento in Italia di quella “rivoluzione passiva” che, a partire dal primo ministero di Margaret Tatcher nel 1979 e dall'elezione di Ronald Reagan alla presidenza degli Stati Uniti nel 1981, cerca di ristrutturare i rapporti di produzione su scala globale.
É vero, quindi, che paragonare sic et simpliciter grillismo e fascismo significa fare un'operazione ipocrita, ma credo sia anche molto pericoloso vedervi quella carica rivoluzionaria che semplicemente non possiede. É ancora presto per capire dove ci porterà. Dovremo attendere la sua istituzionalizzazione, o normalizzazione se volete. Solo allora avremo la possibilità di capire realmente con chi ci troviamo e ci troveremo a che fare. Solo allora potremo prendergli le misure ma, si badi, a quel punto potrebbe essere tardi.




di Andrew Dok.







IN MEMORIA DI C.B.


Quando aprii la porta di casa e lo vidi seduto sulla sedia con in mano una lametta ad armeggiare attorno alla coscia proprio all'altezza del femore, non mi ci volle poi molto per capire che cosa era successo. Ai piedi del tavolo, tutta intrisa di sangue, giaceva ancora la siringa con l'ago spezzato. Poco più in là, sul pianale di marmo della cucina vicino a un posacenere stracolmo di mozziconi e a una bottiglia avviata di whisky, avvolta nella pagina del giornale locale, faceva capolino la campana d'ottone della sua Martin. Quella sera lui e N. avrebbero dovuto suonare assieme a F. in un famoso locale della zona e adesso, come se già a rompere le scatole non bastasse questa cazzo di afa, con la gamba conciata a quel modo sarebbe stato un vero e proprio casino. Merda! Senza perdere un altro momento arraffai il primo straccio che riuscii a trovare a portata di mano e iniziai a tamponargli la ferita. S'era fatto proprio un bel taglio. Dopo avergli ripulito per bene tutta la gamba gli chiesi come adesso avrebbe voluto risolvere la faccenda. La punta dell'ago era ancora dentro, lo squarcio era lungo e profondo e io gli feci notare che non ero né un sarto e né tanto meno un dottore. Dopo aver posato la lametta sul tavolino C. sbirciò di sottecchi la sua tromba e mi disse: <<l'importante è non andare all'ospedale>>. Con un marcato accento americano, anche se batteva sulla sessantina, aveva ancora il tono della voce che profumava d'adolescenza, di belle ragazze e di sfreccianti macchine veloci con la cappotta abbassabile.
Su questo non avevo alcun dubbio, gli sussurrai guardandolo dritto negli occhi. Un altro di quei titoloni sul giornale ora era l'ultima cosa di cui C. aveva bisogno. L'ultima volta, circa una ventina d'anni prima, una faccenda del genere era finita con un lungo periodo di ferie a San Giorgio. Dalla porta di casa entrava una sbarra di sole grossa quanto una trave; e mentre io me ne stavo in questa cucina con un amico strafatto e con una gamba ridotta a brandelli tra le mani, là fuori come se tutto questo fosse normale il mondo proseguiva a festeggiare l'estate. Buffo, pensai. Ma non c'era un momento da perdere, il sangue continuava a sgorgare copioso dal taglio e lo sguardo di C., forse per la roba o forse per il troppo plasma perduto o forse per entrambe le cose, sembrava stesse preparando i bagagli. Dopo avergli fasciato alla meglio la gamba con uno straccio pulito, lo trascinai fuori di casa e lo imbarcai subito in macchina. Sistemato sul sedile del passeggero ingranai la prima e in mezzo a nuvolaglie di biciclette e sorridenti cosce abbronzate, mi diressi verso lo studio del dottor Moscardini. Da lì era lontano giusto cinque minuti. Durante il tragitto C. tolse la benda e riattaccò ad armeggiare attorno allo squarcio a caccia del piccolo inquilino d'acciaio; e dopo avermi ribadito ancora una volta di non voler essere portato per nessuna ragione al mondo all'ospedale, mi disse di stare tranquillo che nella sua vita ne aveva passate di peggio. Come quando quella volta in America un nero a cui doveva dei soldi gli fracassò la bocca con una sassata e dovette così imparare a suonare la tromba senza i denti davanti. Queste sono mica cazzate, altro che un aghetto troncato in una gamba. Arrivati allo studio del dottor Moscardini parcheggiai la mia 126 e lo aiutai a scender di macchina. La ferita era stata riattizzata e la gamba di C. era nuovamente tutta sporca di sangue. Nonostante la cappa dell'afa, magliette sudate e appiccicate alla pelle e odore dolciastro nelle narici, erano le uniche due cose che quel giorno non avevo messo nel preventivo. Quel pomeriggio morso dal sole di luglio -pur se quelle non erano le spiagge della Pacific Coast Higway- infatti lo ero andato a trovare per dirgli soltanto se voleva venire al mare per darsi una rinfrescata e bersi una birra. E invece, dopo neanche dieci minuti, mi ritrovai a bussare come un forsennato all'ambulatorio del dottor Moscardini coi colpi che rimbombavano cupi a mo di mitraglia nel vuoto dello studio. Non c'era proprio nessuno, nemmeno un paziente. Tutti, compresi i virus e i germi, avevano ben ragionato d'andarsene al mare. O meglio: tutti tranne C.B. Stufo di star a sbucciarmi inutilmente le nocche su una porta di legno massello e stanco di veder C. rantolare attorno ai brandelli di quel cazzo di taglio, abbassai la maniglia e di peso lo trascinai dentro. Ma non feci neanche due passi e subito m'accorsi che quel pomeriggio avevo decisamente tutto l'oroscopo contro: ubriaco come una giubba il dottor Moscardini ronfava sdraiato braccia a croce sopra la lettiga del suo ambulatorio neanche fosse un leone che s'è appena sbafato un rinoceronte africano. Neppure a farlo apposta, con una maglietta colorata e dei pantaloni bianchi di lino, quel figlio di puttana sembrava proprio un turista. Fasciati da due mocassini i piedi gli sbordavano fuori dalla lettiga e i raggi del sole che filtravano dalla grossa vetrata, dopo aver rinterzato sul bianco delle pareti, andavano a sbattergli sul viso facendogli pure oscurare le lenti degli occhiali da vista. Cazzo, sì: pareva proprio un fottuto bagnante. Non sapendo che fare misi C. a sedere sopra la sedia di pelle che si trovava dietro la scrivania e incominciai a scrollare il dottore. Niente, come morto. Al solo pensiero che adesso sarebbe potuto entrare qualche paziente, mi misi a ridere quasi da pisciarmi nelle mutande. Avere C.B. come medico quando non era alle prese con la sua Martin, era sicuramente una faccenda che non avrei augurato neanche al mio peggior nemico. Improvvisamente però mi prese il nervoso e proprio mentre stavo pensando di andarmene mollando lì entrambi i bastardi a smaltire da soli i loro viaggi, vidi C. alzare al cielo la mano tutta intrisa di sangue. Incollato sul dito indice aveva il pezzo dell'ago che frustato dai raggi del sole brillava come un diamante. Dopo aver tirato un sospiro di sollievo e lasciato il dottor Moscardini al suo sonno animale, aprii la vetrina dove teneva le medicine e in mezzo a una miriade di scatolette di pasticche e flaconi, tirai fuori un kit da pronto soccorso. Dentro fortunatamente c'era tutto quel che serviva: acqua ossigenata, bende, garze e cerotti. Medicai alla meglio la ferita al mio amico e una volta alzato di peso e trascinato nuovamente fino alla macchina, dopo qualche minuto già era bello e che steso nel suo letto che ronfava peggio del dottor Moscardini. Adesso finalmente potevo andarmene a fare quel cazzo di bagno al mare. Prima di uscire di casa e rimontare sulla 126 per recarmi alla spiaggia presi una sigaretta da un pacchetto di Marlboro che C. aveva lasciato accanto al posacenere pieno di cicche, mi feci un goccetto di whisky e accarezzai la campana della Martin che fuoriusciva direttamente dalla carta stampata. Toccare con mano quell'astruso marchingegno che tutte le sere trasformava l'angoscia in un qualcosa di tenue, soffice e caldo come il velluto, fu un emozione che francamente non so riportare nero su bianco. Con la colonna vertebrale scossa da un milione di piccole scariche elettriche che mi s'irradiavano lungo tutti i muscoli del corpo uscii di casa, per farvi poi ritorno con N. solamente qualche ora più tardi. L'orizzonte del cielo infiammava d'arancio e una sottilissima brezza di grecale ridonava al mondo e agli abiti svolazzanti delle signore un po' di quella frescura che il sole gli aveva tolto durante tutta l'intera giornata appena trascorsa. Trovammo C. già pronto con la Martin ancora avvolta nella carta del giornale sotto braccio. Aveva l'aria riposata e tranquilla come se anziché essersi fatto una pera e sbranata una gamba con una lametta da barba, fosse quel pomeriggio davvero venuto al mare con me a farsi un bagno e a bersi una birra. Andammo così a mangiare nella solita pizzeria sul Viale a Mare dove F. ci stava già aspettando da quasi mezz'ora. Al tavolino, dentro il locale pieno di gente, di quanto avvenne quel pomeriggio io e C. non ne facemmo parola. Mai i fatti fin qui raccontati sarebbero entrati a far parte di una delle tante biografie a lui dedicate, scritte e pubblicate dopo la sua morte. Poi dopo circa un'oretta, sotto un cielo fresco e trapuntato da stelle lucenti e affilate come milioni di gemme, C., N. e F. salirono sul palco davanti a una folta e abbronzata platea agghindata in succinti abiti a fiori. E il soffio profondo dell'anima di C.B. consegnò un'altra serata alla storia.

venerdì 8 marzo 2013

I racconti di Nick Belanes

Lo Zingaro.

Forse tutti avrebbero smesso di chiamarlo Lo Zingaro, pensava Andrea Roianni il primo giorno di lavoro mentre con passo sicuro s'avvicinava a una scala ricoperta da un invisibile strato di ghiaccio. Proprio l’altra mattina, nella piazza di Medusa, prima che il banditore iniziasse a parlare, Andrea si era dato l’ultima possibilità: o questa è la volta buona, si era detto in maniera molto lucida e concreta, o stavolta mi tiro di sotto dalla scogliera. Mentre guardava di sottecchi la piccola folla radunarsi attorno al tavolo ancora vuoto del banditore, Andrea si defilò pian piano in disparte verso la balaustra che recintava la piccola piazza. La cinse e con lo sguardo ora puntato in basso sul rompersi nervoso delle onde del mare sopra gli scogli e ora in alto verso l'orizzonte del cielo, sentì il freddo del ferro quasi tagliargli le dita. Intabarrato in una pesantissima pelliccia di finto montone, con in testa un berretto di lana e con legata al collo una sciarpa che gli copriva buona parte del volto, il banditore come ogni altra volta, staccato dal palo il vecchio cesto di vimini con dentro i nuovi annunci da leggere, si diresse con passo flemmatico verso il suo tavolo. Era una gelida mattina dal sapore spettrale e, anziché la primavera, il pazzo mese di marzo aveva portato con sé un freddo che raramente da quelle parti si era mai sentito. Col maestoso baluardo delle gobbe Apuane spruzzate di neve e appena baciate da qualche stanco raggio di sole, e con l’odore del salmastro così denso e pesante da riuscire a inebriare anche i morti, tutto il mondo sapeva ancora d’inverno. Un secco e sottile vento di ponente pungeva la faccia e lo Zingaro, stringendosi il bavero al collo, cercò nello specchio plumbeo del mare agitato i volti di sua moglie e suo figlio. Se anche quella mattina non fosse riuscito a trovare un lavoro, continuava a pensare avvinghiato alla sua balaustra, dopo quasi tre anni di disoccupazione la vita o la morte sarebbero divenuti solamente inutili dettagli. Stretto a quel pezzo ferro gelato e con le mani incendiate dal freddo, sicuramente, continuava a rimestare i pensieri lo Zingaro, in un modo o nell'altro la famiglia sarebbe andata avanti pure senza di lui: sua moglie era una bellissima donna di trentatré anni e poteva benissimo rifarsi una vita e suo figlio... (qui però ad Andrea prese un piccolo magone che in maniera dirigenziale ricacciò subito dentro lo stomaco) e suo figlio aveva appena due anni e non si sarebbe accorto quasi di niente. Vedendo la goffa figura del banditore attraversare la piazza, la folla, sparpagliata finora come una manciata di biglie lungo la piazza, si dispose ordinatamente a ferro di cavallo attorno al tavolo dove tra poco avrebbe deposto l’urna di vimini. E mentre anche Andrea sbirciava di sottecchi questo passeggio, dopo aver rimuginato sulla famiglia, il cervello gli andò al sindacato, alle battaglie intraprese e a tutti i posti di lavoro da cui era stato direttamente o indirettamente cacciato. Decise così, per dirla con altre parole, di concedersi un’ultima e disperata probabilità di sopravvivenza. <<Se mi fai trovare lavoro..>> sussurrò muovendo impercettibilmente le labbra e alzando gli occhi al cielo, <<se mi fai trovare lavoro giuro che la faccio finita con scioperi e assemblee. Tanto (e questo, chinando il capo sul petto, lo disse a se stesso) certe faccende non sono mai interessate a nessuno>>. Con le gambe mentalmente già oltre la ringhiera di ferro e col corpo percorso da sottili e calde scosse di cariche elettriche, Andrea notò il banditore salire sopra un piccolo trespolo di legno situato ai piedi del tavolo e che lì per lì neanche aveva notato. Non era tanto alto; giusto un paio di scalini ottenuti inchiodando assieme qualche tavoletta tutta scrostata d'abete, per far sì che il suo capo sporgesse su tutte le teste del mondo. Avvicinandosi un poco a dove s'era accalcata la piccola folla, lo Zingaro subito vide il banditore calarsi la sciarpa dal volto e mischiare i messaggi dentro la cesta di vimini. In mezzo a un paradossale silenzio quasi assordante, quel fiato che ogni mattina decretava gioie e tristezze per l'una o per l'altra persona, prima di far sentire il suo suono cavernoso e profondo, si materializzò davanti agli sguardi assonnati di tutti i presenti in due sbuffi biancastri che al contatto col freddo dell'aria subito ricaddero ai piedi del tavolo sotto forma di piccoli stilli di gelo. <<Uno... >> incominciò subito dopo il banditore con la sua voce tuonante: <<Vendo set di padelle usate ma ancora in buono stato>>. Poi, dopo aver sistemato il talloncino di carta tutto spiegazzato che aveva appena estratto dalla cesta di vimini in bella vista sopra il tavolino, continuò: <<due, cerco discografia completa dei Dogs d’Amour, sono disposto a pagare anche di più del valore di mercato. Tre... sindaco saccone piendimmerda dimettiti!!! Firmato: un ammiratore segreto. Quattro... vendo carciofi a un euro al chilo. Rivolgersi direttamente al signor banditore. Max cinque chili>>. Qui, intanto che sistemava gli annunci appena letti sotto un ferma carte a forma di sfera, la voce del banditore si fermò alcuni istanti e con lo sguardo alto e imperioso andò a setacciare la folla in cerca di mani levate. <<Io ne prendo due chili>> disse una donna con dei lunghi capelli bianchi ancora arruffati dalla nottata appena trascorsa. Un vecchio giaccone di sartoria rattoppato sui fianchi ma che ancora la rivestiva a pennello, dimostrava che un tempo aveva conosciuto periodi migliori. Per fisionomia e corporatura non era né bella e né brutta, né alta e né magra. D'età non definibile, per dirla in due sole parole, pareva una donna costretta a economizzare la paga di un marito leggermente più fortunato d'Andrea. <<Io allora prendo gli altri tre chili. A un euro non si trovano nemmeno al mercato>> disse di seguito quella che solo d'apparenza pareva una giovane sposa. Al contrario della donna che aveva appena parlato, teneva un tono di voce alto e squillante simile a un passo di carica ed il volto, nonostante l’ora di prima mattina, era già truccato in maniera perfetta. La gente prese a scrutarla con non poca malizia e dei risolini che ben facevano intendere il mestiere della signora, si levarono al cielo facendo increspare la folla. Con fare distaccato e da vero professionista il banditore prese nota degli ordini e dopo essersi divertito a veder condensare il suo fiato nuovamente in tanti piccoli cristalli di ghiaccio, riprese a rovistare nell’urna. <<Cinque...>> ancora rimbombò sicura per tutta la piccola piazza la solita voce, <<vendo scooter Garelli 50 al miglior offerente. Soli duemila chilometri, revisionato. Sei... caro signor sindaco volevo dirle che la sua signora se la fa con mezza Medusa. Cordiali saluti: un amico di sua moglie. Sette... Lara volevo dirti che sei tutta la mia vita. Auguri di buon compleanno dal Tuo per sempre Matteo>>. Al sentir quest’ultimo annuncio, un’indicibile sensazione d’amaro invase lo Zingaro. Fino a che tutto non mi crollasse addosso, pensò Andrea col sorriso scolpito sul volto, anche io e mia moglie ci scambiavamo messaggi del genere durante il bando. E poi a casa facevamo l’amore, l’amore quello che quando si fa si sente tremare tutta la terra. Mentre adesso... adesso è già tanto se ci scambiamo un saluto... e...<<Dieci... sei manovali per cantiere edile a Viareggio, cercasi. Chiunque fosse interessato deve rivolgersi subito all’ ingegner Picchi, via Spardiglia centotrentadue Viareggio>>. La voce del banditore rintronò nella testa dello Zingaro come se qualcuno ci avesse tirato dentro una bomba. All’udir quelle parole tutti i cattivi pensieri che gli albergavano l'anima furono scompigliati, e la vita subito riaprì quelle chiuse che ormai da tempo erano strette e serrate. Di botto. E quella stessa calma glaciale con cui aveva appena pianificato la morte, in maniera quasi del tutto incondizionata, iniziò subito a vacillare sotto le bordate di enormi cavalloni di gioia. Dopo aver guardato con apprensione che nessuno dei presenti rompesse le fila, prima di saltare in macchina e dirigersi a palla di schioppo ad abbracciare la sua rinata esistenza, ascoltò altri due annunci senza sentirli; poi, tenendo a freno la corsa, come se qualcuno gli avesse già detto che uno di quei posti era proprio per lui, lo Zingaro prese il telefono e con una contentezza che ormai pensava di non riassaporare mai più, gridò negli orecchi a sua moglie che finalmente aveva trovato un lavoro. Ma una settimana più tardi, sotto la neve, mentre lentamente saliva con passo tremolante i gradini gelati di quella maledetta scala di ferro, Andrea Roianni, sentendosi montare in corpo quell’emozione che ahimè ormai ben conosceva, comprese all’istante come sarebbe andata a finire. “Tutto questo non ha senso”, pensò una volta arrivato sul tetto “se per lavorare ad ogni passo devo rischiare la vita, tutto sommato sarebbe meglio farla finita per sempre”. Con intensità molto maggiore, quella stessa sensazione di gioia provata la mattina del bando, impossessandosi di ogni più recondito anfratto dell'anima, piolo dopo piolo adesso s'era rifatta viva sotto forma di un'angoscia opprimente. Oppressione, questa, molto simile a quella che deve provare un topo che si rinfila in una trappola del tutto uguale (o forse anche peggiore) a quella da cui era certo di essere appena riuscito a fuggire. Andrea Roianni detto Lo Zingaro, così, complice forse la neve e quella maledetta scala così scivolosa e traballante che aveva appena salita, decise che non appena fosse finito il turno sarebbe subito andato dal suo nuovo principale e gli avrebbe spiegato come realmente stavano le cose. Suicidarsi perché non si aveva un lavoro, continuava ad arzigogolare sopra quel tetto anch'esso scosceso e sdrucciolevole quanto quell'arnese di ferro che tanto lo aveva fatto patire, era uguale a rischiare ogni volta di scivolare da una scala gelata e rompersi l’osso del collo. Sicuramente, per una banale questione di dignità, minore era la sofferenza e l'umiliazione che un uomo si trovava costretto a subire. Conscio perciò del diritto di potersi scegliere almeno la morte ripensò allora agli scogli sotto la balaustra che cingeva la piccola piazza di Medusa dove aveva udito per l'ultima volta la voce del banditore. Si sentì risollevato. Col volto e le mani arrossate dal freddo, Andrea Roianni detto lo Zingaro, chiuse gli occhi, allargò le braccia e rischiando di sfracellarsi al suolo con uno strano sorriso scolpito sul volto, inarcò la schiena tirando indietro la testa. Stancamente aveva ripreso a nevicare e dei piccoli granelli d'aria gelata, rimastegli incastrati tra i lunghi e ispidi peli della barba come tanti piccoli granelli di sale, almeno per alcuni momenti gli parve riuscissero a raffreddare quella informe e bizzarra onda di fango che gli stava soffocando il respiro. Poi mise una mano dentro la tasca mezza sfondata del suo vecchio giaccone da lavoro, sentì la rassicurante forma spigolosa del pacchetto di Marlboro bucarli la pelle intirizzita dal gelo, e per la prima volta il suo cervello razionalizzò che quel nuovo figlio di puttana per il quale stava lavorando nemmeno gli aveva dato dei guanti. <<That’s life>> sogghignò accendendosi una sigaretta. E mentre avidamente aspirava il male che lo stava corrodendo per ricacciarlo fuori in caldi e rassicuranti sbuffi di fumo, lo Zingaro, chiedendosi di come a lui che aveva anche studiato fosse poi potuta andare a finire a quel modo, si guardò attorno con aria spaurita. Tutto, sotto quell’inusuale e plumbeo cielo di marzo, era ricoperto da una sottile coltre di neve biancastra: il tetto spiovente sul quale era appena salito, gli attrezzi e i pannelli solari accatastati alla rinfusa ai suoi piedi e che nonostante il mal tempo avrebbe dovuto montare, gli alberi intorno, le auto parcheggiate lungo la strada, quel cazzo di scala di ferro arrugginito, i monti alle sue spalle e ogni altra sorta di ammennicolo urbanistico; ogni forma di vita, dicevo, era accarezzata da un bianco sudario che per un suo vezzo speciale il buon Dio aveva deciso di spargere su tutto il mondo. Sospinte dalla perturbazione, strappandola al bianco e facendo ritornare normale il colore della spiaggia, le infuriate onde del mare si abbattevano sulla costa riappropriandosi di quello che gli apparteneva come diritto. “Ecco cosa dovrebbero fare anche gli uomini”, sognò lo Zingaro godendosi dall’alto anche questo spettacolo. “Se tutti i lavoratori anziché chinare sempre la testa facessero invece come le onde del mare, poveri e ricchi potrebbero andare tutti in pensione”. <<Andrea... Andrea!>> si sentì poi tutto a un tratto chiamare dal basso. <<Vieni giù che ieri ho dimenticato di portare sul tetto il frullino e la prolunga>> disse il suo nuovo collega che era rimasto sopra il furgone a bersi il tè caldo che teneva nel thermos. Per Andrea Roianni detto lo Zingaro, anche se già aveva deciso circa al proprio futuro, era pur sempre quello il primo giorno del nuovo lavoro e per dimostrare specialmente a se stesso di quanto fosse immeritato quel suo soprannome, con quella disumana rabbia dentro alle viscere di cui sopra abbiamo discorso, decise di comportarsi come avrebbe fatto qualsiasi altro lavoratore che si fosse trovato nelle sue condizioni. Dopo aver dato ancora un ultimo sguardo a quella lontana e sottile striscia marrone che spumeggiante divideva senza alcuno ritegno il bene dal male, Andrea gettò via la sua Marlboro e fatti alcuni incerti passetti sul tetto spiovente e gelato iniziò a ridiscendere quella scala che non senza rischio e fatica il suo nuovo preposto gli aveva appena fatto salire. Scesi i primi pioli, fermatosi un attimo per acquistare sicurezza nel movimento, guardò in basso e vide il collega più anziano comodamente seduto al posto di guida del camioncino a sorseggiare il suo tè. <<Dai muoviti che bisogna sbrigarsi col lavoro. Mi ero dimenticato di portar su la roba!>> questi gli urlò nuovamente, abbassando velocemente il finestrino per poi richiuderlo subito dopo. Quelle parole gridate in mezzo ai fiocchi di neve andarono a schiantarsi sul corpo d'Andrea come una frustata. Il non sottostare a questo genere di umiliazioni, da sempre era stato per lui quello che sua moglie chiamava “una rovina”. Col corpo tremante di rabbia quindi lo Zingaro riprese nella discesa. Una volta arrivato a terra avrebbe aperto la porta del furgoncino, infilato il thermos nel culo al proprio collega e dopo avergli spiegato così in cosa consisteva l'educazione, sarebbe andato a consegnare le dimissioni al suo nuovo datore di lavoro e a compiere poi quella cosa che ormai anche noi conosciamo. Questo, senza diritto di replica, sarebbe stato il suo ultimo intendimento. Ma con la mente annebbiata da tutta quella vibrante furia che teneva tra i nervi, con la neve e col vento che adesso si erano fatti più forti, ad Andrea Roianni, mentre allungava una gamba per discendere un altro piolo, slittò senza che nemmeno se ne accorgesse il piede d'appoggio. Tutto d'un tratto, con l'amaro in bocca di chi comprende che mai riuscirà a portare in fondo un proposito, lo Zingaro capì immediatamente che la sua esistenza stava per fare i bagagli. “Ecco ci siamo” sorrise lo Zingaro, sentendosi mancare la vita sotto il tallone. Era un qualcosa che bene o male aveva sempre aspettato, o che sapeva benissimo che in ogni momento gli sarebbe potuto accadere. Tanto per intenderci un po' meglio: come quando si aspetta un vecchio amico in ritardo ad un appuntamento, o qualcosa del genere. Poi, cercando inutilmente di aggrapparsi allo scuro manto del cielo, Andrea Roianni sbatté le braccia come fossero ali di piombo e prese a cadere. “Tra poco sarò libero” rimuginò mentre con la coda dell’occhio vide il suo collega gridare da dietro il vetro del camioncino portandosi le mani alla testa. Il tè caldo, almeno quello, sicuramente gli deve essere andato di traverso. Ninnato da un noiosissimo fracasso metallico che niente lasciava sperare a ogni sorta di compromesso, lo Zingaro, prima di chiudere gli occhi per sempre riuscì solo a pensare di come la vita fosse stata bizzarra: appena ieri sera, mentre faceva l’amore assieme a sua moglie, dissipato in quell’attimo dove inferno e paradiso sono soltanto il fremito di un momento, dopo tanto tempo aveva finalmente risentito sotto il suo corpo tremare la terra. Poi un ultima boccata di gelida aria pungente andò a gonfiargli i polmoni. “Così almeno mia moglie potrà dire a mio figlio che suo padre no, non era uno Zingaro” pensò poi nell'ultimo istante Andrea Roianni, prima di chiudere gli occhi per sempre.

mercoledì 6 marzo 2013

UN LAVORATORE IN TRINCEA






A voci dalla Piazza Andrea Dini, magazziniere nella grande distribuzione e R.S.U CGiL, ci parla di lavoro e sindacato. Buon divertimento!


  1. Ciao Andrea, parlaci un po' di te, cosa fai nella vita?
    Dipende. Se intendi quale lavoro faccio, ti rispondo “uno qualsiasi”, ma se intendi chiedermi quali interessi coltivo, qual è la principale occupazione della mia vita quotidiana allora ti rispondo “la ricerca” (nel senso più ampio del termine). In poche parole coltivo la mia curiosità.
  2. Berlusconi e Marchionne, sono o no a tuo avviso due modi diversi d'intendere impresa? Se sì, attingendo a quello che quotidianamente noti sul posto di lavoro, puoi descriverci in breve come secondo il tuo punto di vista i lavoratori si sono adattati al cambiamento......dal padrone al manager, intendo?
    In sostanza credo proprio di no. Il diverso stile padronale è influenzato dal diverso materiale umano – i lavoratori – con cui hanno a che fare. Da una parte i lavoratori dell'informazione, dello spettacolo ecc. dall'altra le tute blu. I primi si sentono dei privilegiati, e lo sono in gran parte, anche se ficcando un po' il naso non tarderemmo a scovare contratti atipici, precariato ecc. I secondi sono i veri guerrieri della nostra epoca (ma non parlo del terzo millennio ma dell'ultimo scorcio del secondo). Il passaggio dal padrone al suo vicario, il manager, non ha cambiato di una virgola i rapporti di produzione, sebbene li abbia resi più complessi, più mediati ma non per questo meno violenti. Li ha resi forse un po' più impersonali, ma è comunque un passaggio che data fine '800. Sotto questo rispetto il caso italiano è un po' anomalo, essendo le SPA autoctone più importanti ancora dominate dalle famiglie storiche del capitalismo italiano, ma rimane un'eccezione regionale.
  3. In una società dominata dalla televisione dove all'apparenza tutto pare essere alla portata di tutti, ha ancora senso parlare di proletari e borghesi? Se si, in quale misura?
    Naturalmente si, anche se sono due categorie profondamente cambiate negli ultimi trenta o quarant'anni. Di fatto esiste ancora chi possiede i mezzi di produzione e chi, invece, può solo farli funzionare. Esistono ancora gli uni e gli altri, ma bisogna intenderci, i primi non sono più quelli che popolavano gli slum in quel di Manchester e neppure quelli del boom economico o del '68 in Italia, mentre i secondi hanno rafforzato la loro “posizione dominante”. Ci hanno fatto credere che i radicali mutamenti che hanno interessato le società un tempo identificate con l'occidente libero, ci avrebbero indirizzati verso una civiltà del benessere, oggi sappiamo che non è vero ma forse non ne siamo ancora del tutto coscienti. In poche parole, fino a quando la relazione che lega i lavoratori e i mezzi di produzione sarà condizionata dal possesso esclusivo di questi ultimi da parte di pochi, quella relazione non potrà che sottostare alle leggi del profitto e, di conseguenza, dello sfruttamento.
  4. Secondo il tuo parere i grandi programmi di massa come i reality show, in che modo hanno inciso sulla memoria storica del nostro Paese?
    Sicuramente non vi hanno inciso direttamente. I reality, alla fine, non sono che una conseguenza dell'abbrutimento in cui versa la cultura di massa, la perdita della memoria storica ne è, forse, la vittima più illustre.
  5. In scritti corsari Pasolini parlava della nascita di un nuovo potere completamente sconosciuto anche alla classe politica degli anni '70 e che in breve tempo avrebbe soppiantato ogni cosa. Il potere economico. In un mondo di chiaro stampo neo-liberista come lo è quello di oggi e dove il profitto regna sovrano su tutto, da un punto di vista prettamente pragmatico ha ancora senso discorrere di destra e sinistra? Se si, qual'è questo senso?
    Se è per quello ha ancora senso parlare di rivoluzione. Il potere economico, in realtà, è da sempre perfettamente conosciuto, non era forse Marx a parlare dei parlamenti e dei governi come del comitato per il disbrigo degli affari correnti della borghesia? E chi era (ed è) la borghesia se non la detentrice del potere economico? Semmai, negli ultimi tempi, si è scoperto essere il potere della finanza il capo bastone del capitalismo contemporaneo, ma anche qui basta andare con la memoria al venerdì nero del '29 per capire quanto fosse un segreto di pulcinella. Destra e sinistra? Quelli sì che sono concetti superati, ma non perché non ci sia più una ragione per dividerci sulle questioni del governo della cosa pubblica, ma perché semplici etichette. Ci sono Gli sfruttati e gli sfruttatori, le differenti sfumature politiche sono solo funzionali al mantenimento dell'egemonia sulla società da parte di chi domina in regime di capitalismo.
  6. Che fine ha fatto o come si è evoluta secondo te la tanto famigerata classe operaia in quest'ultima generazione?
    La classe operaia da sempre conosce evoluzioni e involuzioni. Per quanto riguarda le ultime generazioni... beh, se si pensa che i lavoratori dell'industria e quelli del terziario si equivalevano quanto a numero fino al 1977 (con un rapporto costante per quasi tutto il '900) e che oggi i primi sono diminuiti di più del 20% (a fronte di una crescita degli occupati di circa 3 milioni) mentre i secondi sono quasi raddoppiati, non possiamo che trarre certe sconsolanti conseguenze. In primo luogo la crescita smisurata, e senza precedenti, di quella quasi classe che è la piccola borghesia, tanto vituperata da Gramsci e non solo, e di un nuovo sottoproletariato fatto di lavori precari e bassi salari, responsabili un tempo, e facendo oggi le dovute proporzioni, dell'avvento del fascismo. La prima detentrice quasi esclusiva di quel gretto individualismo, “peso morto della storia”, che tanto ci fa penare oggi, di fronte ad un padronato sempre più consapevole del suo peso. Il secondo, invece, di quel sordido sentimento di sconfitta che ricorda tanto una “vittoria mutilata”. Infatti, quando fino a qualche hanno fa – oggi non ne hanno più il coraggio – ci sentivamo dire “siamo tutti classe media”, quella specie di slogan che ci sussurrava “non lamentatevi ché siete tutti benestanti”, stava a significare il preteso raggiungimento della società del benessere diffuso: l'enorme mutamento del senso comune e del comune sentire, oltre che dei costumi e dei consumi, che ha caratterizzato le classi subalterne, che in Italia affonda le radici negli anni del boom economico, ma con un anticipo di almeno vent'anni negli altri paesi ad economia di mercato sviluppata. Ma oggi sappiamo quale fine abbia fatto quel mito.
  7. Cos'è e che mansione svolge un R.S.U. Sindacale?
    Rappresenta in tutto e per tutto il sindacato, quindi i lavoratori, all'interno nella propria azienda. Mantiene le relazioni sindacali, sottoscrive accordi, si fa portavoce delle esigenze e delle istanze dei lavoratori sul luogo di lavoro. Un ruolo, forse, da riscoprire – assieme a quello dello R.L.S. (rappresentante dei lavoratori per la sicurezza) – soprattutto da parte del lavoratore che ne incarna la figura. É da lì che parte la presa del sindacato sui luoghi di lavoro ed è un ruolo ingrato, anche se immensamente gratificante, perché ci espone in prima istanza alle pressioni della parte datoriale. Credo ci voglia coraggio per svolgerlo al meglio, soprattutto negli ultimi tempi, ma proprio per questo è sempre più necessario.
  8. Pur se con molti problemi e con alcune forti contraddizioni la CGIL negli anni '70 pareva riuscire a rappresentare in maniera adeguata i lavoratori oltre che al tavolo delle contrattazioni anche da un punto di vista culturale. Oggi è sempre così o le cose sono cambiate?
    Il sindacato non è sempre stato padrone delle rivendicazioni operaie. Gli anni '70 hanno significato molto per il movimento sindacale, ma dire che la CGIL rappresentasse in maniera adeguata i lavoratori è una semplificazione eccessiva. Forse è proprio in quegli anni che si è verificato uno scollamento epocale fra lavoratori e sindacato. É in quegli anni che nel mondo del lavoro si concretizza quel profondo mutamento di cui ho parlato poco fa e la marcia dei quarantamila, dopo la lunga vertenza FIAT conclusasi nell'ottobre del 1980, ne è la prima fragorosa manifestazione. Quanto all'oggi, è indubbio che anche la CGIL dovrà affrontare un radicale rinnovamento, ma è anche vero che ad oggi ancora rappresenta un bastione di fortezza per il lavoratore, basta frequentare gli uffici di una qualsiasi Camera del Lavoro per rendersene conto. Io credo, anzi sono certo, che il futuro dei conflitti di lavoro non potranno fare a meno della CGIL che, per quanto criticata – da ultimo, e non a caso, anche dall'odierno leader carismatico della piccola borghesia, Beppe Grillo – è ancora l'unico sindacato capace di opporre una qualche resistenza allo strapotere padronale, con tutto il seguito di errori, marce indietro, timide rappresaglie e quant'altro.
  9. I sindacati di oggi sono a tuo avviso preparati per poter rappresentare anche i lavoratori precari e i disoccupati?
    É proprio questo il punto: la necessità di rinnovarsi per poter rappresentare nel suo complesso il mondo del lavoro. Saper rimettersi al passo delle trasformazioni avvenute nell'ultimo trentennio in quel mondo. Tornare a guardarlo secondo una prospettiva anche sovranazionale – per non dire internazionale. Ma sia chiaro, questo passo costerà molto alla CGIL e per questo ci vuole coraggio. Significa esporsi agli attacchi di quel sindacalismo più combattivo ma anche enormemente più corporativo quale è quello di base. Significa esporsi all'attacco anche delle correnti interne più oltranziste e, forse, almeno in un primo momento all'incomprensione di quei lavoratori che ad oggi ne costituiscono la base più solida e più tutelata. Probabilmente siamo di fronte ad un passaggio analogo a quello fra i sindacati di mestiere e il sindacalismo industriale: i più tutelati dovranno rinunciare ad una parte di tutele in favore di quell'immensa massa di lavoratori precari e disoccupati che popola gli uffici per l'impiego invece delle assemblee sindacali.
  10. Fausto Bertinotti e Sergio Cofferati sono due noti sindacalisti che ormai da tempo si sono consegnati al mondo dell'alta politica. Come mai, secondo te, molto più difficilmente un politico diventa sindacalista?
    In primo luogo perché il sindacalista è il parente più nobile ma anche più povero di onori e di denari del politico. E poi perché per fare il sindacalista è necessario non aver perso quel legame, quella comunità di destino con il lavoratore senza la quale si perde ogni capacità di discernimento su ciò che gli è più utile in una prospettiva a breve-medio termine. Insomma, al politico “l'utopia”, al sindacalista il dovere di far sì che, in qualche modo, il lavoratore continui in primo luogo a riempirsi la pancia con dignità e, in secondo luogo, a rivendicare di giorno in giorno quanto gli spetta per diritto “naturale”.
  11. Vuoi parlarci del progetto “oltre la trincea”?
    É la certezza che la CGIL sarà il fulcro del rilancio delle lotte dei lavoratori. Ma è, insieme, la consapevolezza di non aver fatto abbastanza per tutelare le nuove generazioni, perse fra una miriade di tipologie contrattuali; è la persuasione che c'è ancora molto da fare, in Italia, perché la donna possa dirsi degnamente inserita in un mondo del lavoro che non veda nella maternità e nella famiglia un ostacolo alla realizzazione della donna, ma il suo necessario complemento. La convinzione che gli immigrati non possano che costituire, per i lavoratori italiani, una risorsa e non una minaccia e molto ancora. Ma è soprattutto la certezza che sarà necessaria una profonda trasformazione, nel nostro sindacato, perché possa affrontare con successo le sfide future e che lo indirizzi verso una nuova conflittualità, con strumenti nuovi, con nuova determinazione.
    É un progetto aperto al contributo dei lavoratori, del tutto avulso da ogni logica correntizia, al di là e al di sopra delle dinamiche e delle divisioni congressuali. É il tentativo di ricucire lo strappo con la base, consumatosi con le pratiche neo-corporative degli anni del boom economico, con la società dei consumi e il mutamento della base sociale del lavoro. Può sembrare un paradosso, ma il nostro sindacato, oggi, sconta le conseguenze d'un patto sociale estremamente vantaggioso per il lavoratore, stipulato nel corso delle lotte degli anni '60 e '70. È anche il tentativo di smarcare il nostro sindacato dal discredito in cui è caduto con la politica, senza tuttavia condividerne le colpe, perché se la politica è colpevole della disaffezione del cittadino, il sindacato ha la sola colpa, almeno in parte, di dover subire un riflusso fisiologico dopo le tante vittorie del secondo dopo guerra.
    É un documento aperto, con cui la Filcams di Lucca cerca di riaprire un percorso di coinvolgimento dei lavoratori con assemblee sui luoghi di lavoro, dibattiti ed una vera e propria ricerca sul campo. Una sorta di sondaggio ragionato sugli umori, sulle critiche, i mal di pancia; sulle proposte, i suggerimenti che possono provenire dai lavoratori. 

    Intervistato da Nick Belanes. 

sabato 2 marzo 2013

MIRACOLO A CAMAIORE!

C'è in quel di Camaiore, una Camaiore tutta mediatica – facebookiana, per la precisione – un'arena in cui s'affrontano a singolar tenzone tutta una congerie di cittadini camaioresi, degnamente rappresentati ad ogni livello. C'è il personaggio pubblico – vecchi assessori, ex sindaci, attuali consiglieri, imprenditori, trombati e chi più ne ha più ne metta –, comuni cittadini, cittadini mica tanto comuni come il libero pensatore rivoluzionar-keynesiano, il vetero comunista prolisso e bizantino, l'ambientalista indecifrabile e ancora il grillino fresco di nomina – la nomina a grillino, ovviamente – e, soprattutto, chi falcidia impietosamente grammatica ed ortografia con sproloqui degni del rossore sulle guance di ogni maestrina del tempo che fu. Eh sì! Perché, a quanto ci sembra di poter arguire, di giovani ahimè pochi, ma in compenso con pessime idee e per di più confuse.
Tuttavia, questo gruppo di discussione, “Camaiore e i suoi paesi”, può vantare qualcosa che, soprattutto a seguito delle ultime vicende vaticane, risulta essere merce rara: un miracolo.
I post, che qui germinano come funghi, molto poco hanno a che fare con il nome del gruppo, invero assai generico, ma che sembra espungere dal suo seno, inequivocabilmente, la vipera di ogni riferimento alla gestione della cosa pubblica. Tuttavia, come accade nei periodi in cui l'antipolitica la fa da padrona, è proprio la politica ad essere sulla bocca di tutti. E questo gruppo è divenuto una sorta di agorà in cui si affrontano tanti cittadini (ma i più stanno a guardare) armati, però, di quelle che potrebbero chiamarsi le “armi improprie” della dialettica: le prese in giro, i luoghi comuni, le frasi fatte e gli strafalcioni grammaticali. Ah!, dimenticavo, c'è chi preferisce prendere l'avversario per sfinimento, con interventi interminabili e cervellotici (circa “la verità degli atti amministrativi”?!) che hanno l'effetto del valium (non il medicinale, peggio, la canzone di Vasco!). Altri, invece, t'assassinano l'avversario con una sequela inverosimile di proposte, lasciando intendere di avere le soluzioni anche per i problemi ancora non posti, il tutto condito dell'abracadabra macroeconomico in salsa socialdemocratica. Ma non è di questo che vi vogliamo parlare.
Il miracolo, dicevamo, si è verificato imprevisto. La tanto criticata giunta Del Dotto ha compiuto, qui, un'impresa genuinamente titanica. Ed è vero, ci sentiamo di dire che spira un vento nuovo a Camaiore, una nuova stagione! Ai lettori l'arduo compito di collocarla adeguatamente in un ideale “calendario” dell'alternanza politico-amministrativa. Ha saputo unire quanto la storia, da sempre, divide. Ha saputo ricomporre anche i dissapori elettorali in seno al centro-destra (che purtuttavia, di tanto in tanto, fanno capolino). Ha saputo metter d'accordo l'implacabile censore keynesiano con il nostalgico del ventennio che fu – inviti a cena, dichiarazioni d'aperta simpatia... che sia sbocciato l'amore? Una sorta di grosse koalition della “critica critica” centro-destrorsa, in questo caso con scappellamento a sinistra. Tutti contro uno: Alessandro Del Dotto, l'impassibile Renzi de noantri, avec son entourage. Sulle prime la difesa d'ufficio di alcuni sellini e di pochi piddini, poi le difese d'ufficio si sono rarefatte ed hanno lasciato il campo all'impietoso biasimo del “centro-destra-sinistrakeynesiana (più qualcos'altro)”. Ad onor del vero, però, una critica più qualunquista e sgrammaticata che centrata (salvo rare, rarissime eccezioni). Ma tant'è!, condivisa da destra e da sinistra, da nostalgici e rivoluzionar-riformisti in odor di santità ideologica. I loro argomenti puzzano di muffa, eppure te li presentano come se fossero patate novelle.
Mancano le rotonde, ma non gli incroci pericolosi, e di tanto in tanto manca la luce in interi quartieri; le buette rimangono tali – tanto poi ci sguazzeranno i bimbetti – e non muove foglia che Del Dotto non voglia (e sembra proprio che non voglia!). Ma in questo gruppo, grazie al Sindaco col mal d'Africa, la destra e una certa sinistra vanno di nuovo a braccetto, com'è stato – per altri versi e con altri protagonisti – per i 14 mesi del governo Monti. Tutto considerato, vi sembra poco?

di Andrew Dok.