PERSONAGGI:
Paolo.
Vito.
Emiliano
detto Zapata.
AMBIENTAZIONE:
Cantiere
navale. Macchina del caffè, tra la porta dei cessi da dove
esce
un nauseabondo odore di urina e la prua del motoscafo Gheopard
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MT Sport. Sul lato destro della macchinetta c’è un bidone
di
plastica con dentro un sacco nero pieno di bicchierini di carta
mentre
davanti, accuratamente sistemati sopra uno scaffale di
ferro,
si trovano i grossi fogli di compensato da 15 mm pronti per
esser
tagliati. Da dentro la barca fuoriesce un assordante rumore di
pialle
elettriche, gattucci e ogni altra sorta di utensile atto a tagliare
il
legno o la resina. Nell’aria galleggia una coltre di pulviscolo
marrone
talmente leggero e sottile che pare quasi un delicato banco
di
nebbia.
VITO:
scusi, buongiorno, stavo cercando il signor Paolo della “RS
Resinature
Navali”.
EMILIANO:
mettiti pure a sedere lì tranquillo (indica
i grandi fogli
di
compensato di fronte alla macchinetta del caffè) perché
il signor
conte
Paolo prima delle nove non è mai sul posto di lavoro.
EMILIANO
(mentre
si mette la mano in tasca in cerca della chiavetta
di
plastica verde da mettere dentro la macchinetta):
lo prendi
il
caffè?
VITO:
sì grazie.
EMILIANO:
sei anche te di Palermo? Qui dentro ormai siete quasi
tutti
siciliani.
Vito
annuisce col capo, in silenzio. Dopo alcuni istanti Emiliano
prende
l’espresso da sotto il coperchio di plastica trasparente della
macchinetta,
glielo passa e preme un’altra volta il tasto del caffè.
EMILIANO:
digli al tuo datore di lavoro che quel pezzettino di carta
lì
che tieni in mano, può pure infilarselo nel buco del culo. Per
resinare
ci vogliono quelle buone, coi cartoncini intercambiabili e
tutto
il resto. (Intanto
che con la sinistra preleva il suo caffè, col dito
indice
della destra indica la mascherina tenuta in mano da Vito).
VITO:
Cosa vuol dire tutto il resto?
EMILIANO:
sì tutto il resto, una trentina d’euro per andarla a comprare.
VITO:
minchia!
EMILIANO:
minchia un paio di palle! Con quell’affare di cartone
che
ti hanno rifilato, se continuerai a fare questo lavoro, tra una
ventina
d’anni ti sveglierai una mattina con un po’ di tosse, andrai
dal
medico a farti vedere, e dopo qualche giorno... ualà, la sorpresa:
anche
se non hai mai fumato un cazzo di sigaretta in tutta la tua vita,
ti
ritrovi un tumore ai polmoni grosso così.
Emiliano
detto Zapata inizia a bere il suo caffè e si va a sedere accanto
a
Vito sulle tavole di compensato.
EMILIANO:
cosa facevi a Palermo?
VITO:
il contadino nel piccolo aranceto di mio padre. Adesso non
c’è
più lavoro perché quasi tutte le arance le importano dalla Spagn...
EMILIANO
(senza
neanche fargli finire la frase):
il contadino nel
piccolo
aranceto di tuo padre!? E tu hai lasciato la tua terra, il profumo
del
mare pulito e delle arance e magari anche una ragazza, per
farti
mille chilometri e venirti a massacrare per poco più di niente
in
un posto come questo? Lo sai, tanto per dirtene una, cosa hanno
iniziato
a fare alcune ditte che lavorano in questo splendido cantiere
navale?
VITO
(facendo
un secco e impercettibile gesto col capo):
tsu...
EMILIANO:
Siccome dicono che c’è poco lavoro, allora, anziché
pagarti
le otto ore al giorno come da contratto e come effettivamente
lavori,
te ne pagano soltanto sette e te ne aggiungono una di ferie per
far
quadrare i conti sulla busta paga. E invece, quando bisogna
consegnare
la
barca, facendo finta di piangere per la carenza di lavoro,
allora
ti fanno sgobbare anche dodici ore al giorno e te ne retribuiscono
solamente
otto.
VITO:
minchia!
EMILIANO:
e se credi che sia finita qui, ti sbagli di grosso.
VITO:
perché?
EMILIANO
(con
un amaro sorriso scolpito sulle labbra si alza,
prende
il bicchiere vuoto dalle mani di Vito e lo getta assieme al suo
dentro
il cestino dei rifiuti. Poi torna a sedere):
vedi, io sono quello
che
in gergo non troppo tecnico viene definito un fannullone, cioè,
un
essere umano che si fa le sue otto ore senza rompere i coglioni a
nessuno
e che, quando suona la sirena di fine turno ed iniziano gli
straordinari,
chiude la cassetta dei ferri e corre a farsi i fattacci suoi.
Se
tutti facessero così, anziché comportarsi come il tuo Paolo che
viene
sempre a lavorare con quasi due ore di ritardo, le cose secondo
me
andrebbero decisamente meglio.
VITO:
e lo pagano pure?
EMILIANO:
certo che lo pagano, come no?! E non timbra nemmeno
il
cartellino, come invece fanno tutti gli altri operai: segna sopra
un
pezzo di carta che ha fatto dodici ore, il vostro datore di lavoro si
rumina
in tasca ogni venerdì e gli paga al nero tutti gli straordinari
che
poi praticamente non fa e delega agli altri. E naturalmente, alla
fine
del gioco, se il lavoro è venuto bene e la barca è stata consegnata
nei
tempi prestabiliti, tutto il merito è di Paolo; altrimenti, se
le
cose vanno male o c’è qualche intoppo lungo la lavorazione, la
merda
è tutta di Mocombo, il tuo collega di lavoro.
VITO
(ghignando):
la dura vita dei responsabili.
EMILIANO
(annuendo
col capo): la
dura vita di chi è buono a leccare
dei
culi. (Pausa).
Pensa che il vostro principale non si vede
mai
e da un punto di vista lavorativo ha cresciuto Paolo a propria
immagine
e somiglianza.
EMILIANO
(dopo
essersi alzato e stirato la schiena):
sono le nove
passate
e adesso devo tornare a bordo... ah! A proposito (gli
tende
la
mano sorridendo) io
sono Emiliano, ma qui dentro tutti mi chiamano
Zapata.
VITO:
io sono Vito (risponde
alla stretta di mano anch’egli col sorriso
sulle
labbra).
Emiliano
detto Zapata esce di scena incrociando Paolo non ancora
vestito
con gli abiti da lavoro. I due si guardano per un attimo in
cagnesco.
Paolo è di passo veloce, ha i capelli impomatati, indossa
vestiti
sportivi e tiene in mano le chiavi della sua motocicletta. Si
mette
davanti a Vito che è ancora seduto sulle tavole di compensato
davanti
alla macchinetta del caffè.
PAOLO:
(con
cipiglio austero, da padrone):
Vito Renda?
VITO
(alzandosi
di scatto come una molla):
sì.
PAOLO:
sono le nove passate e sei ancora alla macchinetta del caffè!?
In
fondo al mese il nostro titolare ci paga per essere sul posto di
lavoro
alle sette e mezza precise! Capito?
VITO
(abbassando
lo sguardo, con timidezza):
sì...
PAOLO
(mantenendo
il cipiglio austero ma ammorbidendo leggermente
il
tono di voce):
stavolta passa perché è il tuo primo giorno
di
lavoro, ma bada bene che non si ripeta mai più. La pausa caffè è
dalle
otto e quarantacinque alle otto e cinquantacinque. Chiaro?
Vito
annuisce col capo, in silenzio e con ancora lo sguardo basso.
PAOLO
(tronfio
e impettito):
allora Vito, stamani devi dare una mano
a
quel cretino di Mocombo. Vai a bordo di questa barca, la commessa
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(alza
lo sguardo e indica la grossa prua quasi sopra le loro
teste),
scendi in sala macchine e lo aiuti a resinare i basamenti dei
motori.
Almeno inizi a prendere confidenza con gli attrezzi.
VITO
(riacquistando
un po’ di forza nel tono di voce):
ma non vieni
anche
tu a farmi vedere quello che devo fare?.
PAOLO:
no! Ci pensa Mocombo! Io dovrei farcela a tornare per
oggi
pomeriggio.
VITO:
ma chi è Mocombo?
PAOLO:
appena sali a bordo lo riconosci subito. Oltre a puzzare come un
maiale ammarcito è l’unico negro che lavora in sala macchine.
VITO:
ok. Allora io vado, ci vediamo dopo.
PAOLO
(con
indifferenza e sovrappensiero):
sì... sì... ciao...
Vito
si gira e con in mano la sua mascherina di cartone tenuta per
l’elastico,
incomincia a incamminarsi verso la scala per salire a
bordo
alla barca.
PAOLO:
oh! (fischio)
oh! (fischio)
oh! come cazzo ti chiami PALERMO!
Vito,
che aveva già percorso una quindicina di metri, si ferma e
capisce
che il responsabile lo sta chiamando. Poi si volta nella sua
direzione.
PAOLO:
prendi il cellulare che ti lascio il mio numero di telefono.
Vito
si toglie il telefono di tasca e dopo aver pigiato qualche pulsante,
lo
segna nella rubrica.
PAOLO
(mostrando
due dita della mano):
uno, se per caso capitasse
il
principale gli devi dire che sono appena uscito per andare a prendere
del
materiale al magazzino. Poi subito dopo mi telefoni. Due,
se
vuoi un consiglio da amico non parlare più con quello Zapata.
Quello
è un fannullone e sicuramente qui dentro sarà il prossimo ad
essere
licenziato.
Pausa.
VITO
(col
sorriso sulle labbra):
ma chi era questo Zapata?
PAOLO
(quasi
stupito): come
non sai nemmeno chi era Fernando
Zapata!?
Allora sei proprio duro! Fernando Zapata era un tale che
nel
1700 uccise e mangiò due bambini appena nati giù in Messico,
a
Las Plata per l’esattezza.
VITO
(ancora
sorridente):
va bene capo. Allora ci vediamo oggi.
PAOLO:
ciao.
Vito
si volta nuovamente verso la scala e riprende a camminare.
Paolo,
invece, si guarda attorno con aria furbesca e poi schizza al
di
fuori della porta d’ingresso del cantiere navale.
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