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mercoledì 1 maggio 2013

La violenza e lo Stato (un abbozzo alquanto parziale)


L'attentato di palazzo Chigi, avvenuto nel corso del giuramento del Governo Letta, ha riproposto vecchie argomentazioni e posizioni ormai scontate, politically correct, sul concetto di violenza. Argomentazioni su cui pesano ancora gli anni di piombo, la strategia della tensione – di tanto in tanto rispolverata da destra e da sinistra – le nuove BR ecc. Comunque tutti concordi nel ripudiarla, nello spingerla giù nello sprofondo dell'inconscio collettivo, affinché si ripresenti solo come sintomo.
Certo, massima deve essere la solidarietà verso i carabinieri feriti domenica scorsa e anche verso quella ragazza di 23 anni che vede suo padre lottare con un destino, in ogni caso, foriero di difficoltà. La violenza fine a sé stessa è sempre da condannarsi senza remore, senza riserve, senza pietà.
Tuttavia, chi sostiene che la violenza tout court sia senz'altro da ripudiare o fa parte dell'establishment o, democratico e pacifista radicale, preferisce chiudere gli occhi di fronte ad un fatto: la violenza non è un disvalore, è uno strumento. Nel primo caso, nel caso di chi appartiene alla classe dirigente, si mette in atto uno schema difensivo, non per condannare la violenza a 360 gradi, ma per salvaguardare il monopolio dell'uso della forza da parte del potere statuale; e ciò è senza dubbio sensato. Il concetto stesso di Stato, nel senso più rigoroso del termine, rivendica per sé il monopolio della forza e della coercizione. É questo monopolio stesso che lo salvaguarda dalle pulsioni disgregatrici che ogni Stato, come centro di potere, cova in seno. Ma c'è un “ma”; c'è sempre un “ma”.
Se lo Stato è virtuoso, se si mantiene nei limiti di un uso virtuoso della coercizione – e qui, naturalmente, apriremmo una voragine, se solo volessimo definire tale virtù nel suo diritto – saprà allora assolvere a dovere il proprio compito. Tuttavia, se solo ci chiediamo quale sia quel limite, quel confine, ecco che è l'intero concetto di Stato ad essere posto in dubbio. Fin dove può spingersi lo Stato nell'esercizio di questa sua prerogativa? E perché? E quando, tale prerogativa, cessa di essere istituzionale?
Ora, è piuttosto evidente che un limite di tal fatta non è tracciabile con precisione, in primo luogo perché, a parità di condizioni, è il sistema valoriale di riferimento – il comune buon senso – che ne influenza la collocazione, in secondo luogo perché, variando con il variare del contesto, quel confine è costitutivamente provvisorio. Insomma, anche se, perché una comunità complessa come uno Stato possa esistere, è necessario che detenga il monopolio della forza – compresa la possibilità di delegarla ad altre mani – quel monopolio, e il limite entro cui esercitarlo, è arbitrario, è discrezionale. Ma, se così stanno le cose, è del tutto legittimo porci un'ulteriore domanda, soprattutto se si tratta di uno stato democratico: fino a qual punto è necessario tollerare quell'utilizzo esclusivistico ma discrezionale della violenza? Quando quell'utilizzo diventa intollerabile? Ma soprattutto, e in tal caso, come possiamo – o dobbiamo, in qualità di cittadini – rispondere?
Credo sia ormai ovvio dov'è che voglio arrivare. Il punto è che l'esercizio della violenza – repressione, coercizione, custodia cautelare, attentato dinamitardo ecc. – chiunque sia ad esercitarla, stato, criminalità, agenzie di vigilanza privata, è sempre arbitrario e deliberato: premeditato.
Ciò che si insegna, per prima cosa, al neofita del pugilato è la guardia, vale a dire si perfeziona la risposta istintiva, naturale, che chiunque oppone ad una aggressione. Il contrattacco è sempre successivo, è il frutto di una libera scelta fra restituire l'offesa e fuggire. L'esercizio della violenza, quindi, non è mai qualcosa di meccanico, di automatico, ma è sempre il frutto di una scelta deliberata ed in quanto tale potenzialmente errata: eccessiva o inutile.
Lo Stato, anche il più liberale e democratico, facendosi carico del monopolio della violenza, si fa carico al contempo della possibilità dell'errore che, in quanto tale, potrebbe mettere a repentaglio la funzione stessa della violenza istituzionalizzata che, invece di salvaguardare l'unità di quella comunità complessa, la disgrega. Da qui la liceità, per chi ne subisce le conseguenze, di valutare la possibile risposta che, in quanto opposta e contraria alla funzione disgregatrice della prima, si fa Stato essa stessa.
Stando proprio a quanto siamo venuti dicendo, la violenza è sempre una scelta, un deliberato. Quando è giusto ricorrervi? Abbiamo dato per scontato che, entro certi limiti, tanto indeterminati da essere solo di principio, è giusto che lo Stato vi ricorra, come funzione difensiva, ma deliberata, della comunità che rappresenta. Ma quando questo ricorso da parte dello Stato diventa in qualche modo lesivo della comunità che lo costituisce, allora è abbastanza naturale pensare che una risposta analoga – da parte della comunità stessa? di un gruppo specifico originato al suo interno? ecc. – sia giusta se salvaguarda l'unità di quella comunità, rifondando lo Stato. É anche in questo senso, io credo, che possa essere intesa la famosa locuzione marxiana, contenuta nel libro I de Il capitale, “La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova”.
L'equivoco pacifista, che vede nella “non violenza” oltranzista un valore universale e necessario, nasce da un malinteso circa il concetto di democrazia. Sono in molti ad ergerla a valore in sé, ma essa, nella misura in cui trova applicazione pratica, è solo uno strumento. C'è un'enorme distanza fra il concetto e l'ipostasi, tale per cui il concetto non trova mai la sua piena incarnazione. É per questo che molti vedono nelle istituzioni democratiche poco più d'un feticcio o di uno strumento che, in quanto tale, ha una sua utilità rispetto ad un fine ma non è un valore universale. All'idealizzazione della democrazia, a partire dalla formula di Pericle, del Discorso agli ateniesi 461 a. c., 

"Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi... Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace... Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia",

bisogna opporre la sua realtà, una realtà - ci suggerisce J. A. Schumpeter - che “non è assolut[a] e rigoros[a]” e che “ammette deviazioni”. Infatti, 

"Se per [libertà individuale] si intende l'esistenza di una sfera di autogoverno individuale i cui confini sono storicamente variabili – nessuna società tollera una libertà assoluta nemmeno di coscienza e di parola, nessuna società annulla questa sfera – è chiaro che tutto diventa questione di gradi... il metodo democratico non garantisce necessariamente una libertà individuale maggiore di quella che un altro metodo politico consentirebbe in circostanze simili" (J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia).

Detto questo, il metodo dialogico, mai violento, come unico metodo di risoluzione dei contrasti, dato un regime democratico, si rivela una pia illusione e l'opzione violenta può divenire, anche in un paese che si riconosce nei principi democratici, un'opzione non soltanto praticabile ma addirittura necessaria.
L'assunto del pacifismo oltranzista si riduce quindi, nella pratica, al principio secondo cui è preferibile adire a vie pacifiste, nella risoluzione dei conflitti, quando ciò sia possibile. Quando ciò non è possibile, la via violenta può divenire l'unica opzione praticabile, ad esempio per rovesciare un governo dispotico oppure per rovesciare un governo formalmente democratico ma che non contribuisce al bene collettivo, ma soltanto di alcuni gruppi specifici.
Circa la domanda, invece, “quando – nello specifico – e a chi e lecito adire a vie violente?”, quando, cioè, si passa da un piano puramente teorico e di principio, a quello della messa in pratica dell'opzione violenta, ebbene, le problematiche che si impongono sono di natura tale da non essere assolutamente risolvibili se non sul piano storico. Chiunque si opponga con la forza all'ordine costituito – e qui non ha alcuna importanza la natura di quell'ordine – è percepito e fatto percepire come un pericolo per la comunità, per la società, per lo Stato. Un pericolo di cui è necessario sbarazzarsi con la sua messa al bando o con la soppressione. In un primo momento, quindi, quale che sia la natura del gruppo o dell'individuo che agisce per vie violente, lo Stato li oblitererà come criminali e, in quanto tali, antisociali. Questo comportamento è del tutto coerente con la linea di difesa dello Stato che passa per il monopolio della violenza. Chi si oppone all'ordine costituito costituisce un pericolo effettivo all'integrità dell'ordine sociale, chi vi si oppone violentemente, passando cioè alle vie di fatto, deve necessariamente essere represso, anche quando il gruppo o l'individuo in questione appartengono agli organi istituzionali dello Stato. Questa è la chiave. Chi allora, avrà al contempo il diritto ed il dovere di farsi carico dell'esercizio della violenza, esercizio che mira a diventare esclusivo facendosi stato e facendosi carico di una scelta deliberata che, in quanto tale, si scopre fallibile? 
E chi, soprattutto, è chiamato a farsi giudice della liceità di quella pretesa? La Storia. Sarà la Storia, la storia dei successi e dei fallimenti cosparsi sulla via dell'esercizio della violenza, sentiero che la percorre per tutta la sua estensione, che ne sancisce le svolte e che giustifica la mitopoiesi storiografica. Lì sta il sottile discrimine che farà di un uomo un volgare criminale o il Padre fondatore dello Stato.

Di Andrew Dok

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