L'attentato di palazzo
Chigi, avvenuto nel corso del giuramento del Governo Letta, ha riproposto
vecchie argomentazioni e posizioni ormai scontate, politically
correct, sul concetto di
violenza. Argomentazioni su cui pesano ancora gli anni di piombo, la
strategia della tensione – di tanto in tanto rispolverata da destra
e da sinistra – le nuove BR ecc. Comunque tutti concordi nel
ripudiarla, nello spingerla giù nello sprofondo dell'inconscio
collettivo, affinché si ripresenti solo come sintomo.
Certo,
massima deve essere la solidarietà verso i carabinieri feriti
domenica scorsa e anche verso quella
ragazza di 23 anni che vede suo padre lottare con un destino, in ogni
caso, foriero di difficoltà. La violenza fine a sé stessa è sempre
da condannarsi senza remore, senza riserve, senza pietà.
Tuttavia, chi sostiene
che la violenza tout court sia
senz'altro da ripudiare o fa parte dell'establishment
o, democratico e pacifista radicale, preferisce chiudere gli occhi di
fronte ad un fatto: la violenza non è un disvalore, è uno strumento. Nel primo caso, nel caso di chi appartiene alla
classe dirigente, si mette in atto uno schema difensivo, non per
condannare la violenza a 360 gradi, ma per salvaguardare il monopolio
dell'uso della forza da parte del potere statuale; e ciò è senza
dubbio sensato. Il concetto stesso di Stato, nel senso più rigoroso
del termine, rivendica per sé il monopolio della forza e della
coercizione. É questo monopolio stesso che lo salvaguarda dalle
pulsioni disgregatrici che ogni Stato, come centro di potere, cova in
seno. Ma c'è un “ma”; c'è sempre un “ma”.
Se lo
Stato è virtuoso, se si mantiene nei limiti di un uso virtuoso della
coercizione – e qui, naturalmente, apriremmo una voragine, se solo
volessimo definire tale virtù nel suo diritto – saprà allora
assolvere a dovere il proprio compito. Tuttavia, se solo ci chiediamo
quale sia quel limite, quel confine, ecco che è l'intero concetto di
Stato ad essere posto in dubbio. Fin dove può spingersi lo Stato
nell'esercizio di questa sua prerogativa? E perché? E quando, tale
prerogativa, cessa di essere istituzionale?
Ora,
è piuttosto evidente che un limite di tal fatta non è tracciabile
con precisione, in primo luogo perché, a parità di condizioni, è
il sistema valoriale di riferimento – il comune buon senso – che
ne influenza la collocazione, in secondo luogo perché, variando con
il variare del contesto, quel confine è costitutivamente
provvisorio. Insomma, anche se, perché una comunità complessa come
uno Stato possa esistere, è necessario che detenga il monopolio
della forza – compresa la possibilità di delegarla ad altre mani –
quel monopolio, e il limite entro cui esercitarlo, è arbitrario, è
discrezionale. Ma, se così stanno le cose, è del tutto legittimo
porci un'ulteriore domanda, soprattutto se si tratta di uno stato
democratico: fino a qual punto è necessario tollerare quell'utilizzo
esclusivistico ma discrezionale della violenza? Quando quell'utilizzo
diventa intollerabile? Ma soprattutto, e in tal caso, come possiamo –
o dobbiamo, in qualità di cittadini – rispondere?
Credo
sia ormai ovvio dov'è che voglio arrivare. Il punto è che
l'esercizio della violenza – repressione, coercizione, custodia
cautelare, attentato dinamitardo ecc. – chiunque sia ad
esercitarla, stato, criminalità, agenzie di vigilanza privata, è
sempre arbitrario e deliberato: premeditato.
Ciò
che si insegna, per prima cosa, al neofita del pugilato è la
guardia, vale a dire si perfeziona la risposta istintiva, naturale,
che chiunque oppone ad una aggressione. Il contrattacco è sempre
successivo, è il frutto di una libera scelta fra restituire l'offesa
e fuggire. L'esercizio della violenza, quindi, non è mai qualcosa di
meccanico, di automatico, ma è sempre il frutto di una scelta
deliberata ed in quanto tale potenzialmente errata: eccessiva o
inutile.
Lo
Stato, anche il più liberale e democratico, facendosi carico del
monopolio della violenza, si fa carico al contempo della possibilità
dell'errore che, in quanto tale, potrebbe mettere a repentaglio la
funzione stessa della violenza istituzionalizzata che, invece di
salvaguardare l'unità di quella comunità complessa, la disgrega. Da
qui la liceità, per chi ne subisce le conseguenze, di valutare la
possibile risposta che, in quanto opposta e contraria alla funzione
disgregatrice della prima, si fa Stato essa stessa.
Stando
proprio a quanto siamo venuti dicendo, la violenza è sempre una
scelta, un deliberato. Quando è giusto ricorrervi? Abbiamo dato per
scontato che, entro certi limiti, tanto indeterminati da essere solo
di principio, è giusto che lo Stato vi ricorra, come funzione
difensiva, ma deliberata, della comunità che rappresenta. Ma quando
questo ricorso da parte dello Stato diventa in qualche modo lesivo
della comunità che lo costituisce, allora è abbastanza naturale
pensare che una risposta analoga – da parte della comunità stessa?
di un gruppo specifico originato al suo interno? ecc. – sia giusta
se salvaguarda l'unità di quella comunità, rifondando lo Stato. É
anche in questo senso, io credo, che possa essere intesa la famosa
locuzione marxiana, contenuta nel libro I de Il capitale, “La
violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una
società nuova”.
L'equivoco
pacifista, che vede nella “non violenza” oltranzista un valore
universale e necessario, nasce da un malinteso circa il concetto di
democrazia. Sono in molti ad ergerla a valore in sé, ma essa, nella
misura in cui trova applicazione pratica, è solo uno strumento. C'è
un'enorme distanza fra il concetto e l'ipostasi, tale per cui il
concetto non trova mai la sua piena incarnazione. É per questo che
molti vedono nelle istituzioni democratiche poco più d'un feticcio o
di uno strumento che, in quanto tale, ha una sua utilità rispetto ad
un fine ma non è un valore universale. All'idealizzazione della
democrazia, a partire dalla formula di Pericle, del Discorso
agli ateniesi 461 a. c.,
"Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi... Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace... Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia",
bisogna opporre la sua realtà, una realtà - ci suggerisce J. A. Schumpeter - che “non è assolut[a] e rigoros[a]” e che “ammette deviazioni”. Infatti,
"Se per [libertà individuale] si intende l'esistenza di una sfera di autogoverno individuale i cui confini sono storicamente variabili – nessuna società tollera una libertà assoluta nemmeno di coscienza e di parola, nessuna società annulla questa sfera – è chiaro che tutto diventa questione di gradi... il metodo democratico non garantisce necessariamente una libertà individuale maggiore di quella che un altro metodo politico consentirebbe in circostanze simili" (J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia).
Detto questo, il metodo dialogico, mai violento, come unico metodo di risoluzione dei contrasti, dato un regime democratico, si rivela una pia illusione e l'opzione violenta può divenire, anche in un paese che si riconosce nei principi democratici, un'opzione non soltanto praticabile ma addirittura necessaria.
"Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi... Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace... Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia",
bisogna opporre la sua realtà, una realtà - ci suggerisce J. A. Schumpeter - che “non è assolut[a] e rigoros[a]” e che “ammette deviazioni”. Infatti,
"Se per [libertà individuale] si intende l'esistenza di una sfera di autogoverno individuale i cui confini sono storicamente variabili – nessuna società tollera una libertà assoluta nemmeno di coscienza e di parola, nessuna società annulla questa sfera – è chiaro che tutto diventa questione di gradi... il metodo democratico non garantisce necessariamente una libertà individuale maggiore di quella che un altro metodo politico consentirebbe in circostanze simili" (J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia).
Detto questo, il metodo dialogico, mai violento, come unico metodo di risoluzione dei contrasti, dato un regime democratico, si rivela una pia illusione e l'opzione violenta può divenire, anche in un paese che si riconosce nei principi democratici, un'opzione non soltanto praticabile ma addirittura necessaria.
L'assunto
del pacifismo oltranzista si riduce quindi, nella pratica, al
principio secondo cui è preferibile adire a vie pacifiste, nella
risoluzione dei conflitti, quando ciò sia possibile. Quando ciò non
è possibile, la via violenta può divenire l'unica opzione
praticabile, ad esempio per rovesciare un governo dispotico oppure
per rovesciare un governo formalmente democratico ma che non
contribuisce al bene collettivo, ma soltanto di alcuni gruppi
specifici.
Circa
la domanda, invece, “quando – nello specifico – e a chi e
lecito adire a vie violente?”, quando, cioè, si passa da un piano
puramente teorico e di principio, a quello della messa in pratica
dell'opzione violenta, ebbene, le problematiche che si impongono sono
di natura tale da non essere assolutamente risolvibili se non sul
piano storico. Chiunque si opponga con la forza all'ordine costituito
– e qui non ha alcuna importanza la natura di quell'ordine – è
percepito e fatto percepire come un pericolo per la comunità, per la
società, per lo Stato. Un pericolo di cui è necessario sbarazzarsi
con la sua messa al bando o con la soppressione. In un primo momento,
quindi, quale che sia la natura del gruppo o dell'individuo che
agisce per vie violente, lo Stato li oblitererà come criminali e,
in quanto tali, antisociali. Questo comportamento è del tutto
coerente con la linea di difesa dello Stato che passa per il
monopolio della violenza. Chi si oppone all'ordine costituito
costituisce un pericolo effettivo all'integrità dell'ordine sociale,
chi vi si oppone violentemente, passando cioè alle vie di fatto,
deve necessariamente essere represso, anche quando il gruppo o
l'individuo in questione appartengono agli organi istituzionali dello
Stato. Questa è la chiave. Chi allora, avrà al contempo il diritto
ed il dovere di farsi carico dell'esercizio della violenza, esercizio
che mira a diventare esclusivo facendosi stato e facendosi carico di
una scelta deliberata che, in quanto tale, si scopre fallibile?
E chi, soprattutto, è chiamato a farsi giudice della liceità di quella pretesa? La Storia. Sarà la Storia, la storia dei successi e dei fallimenti cosparsi sulla via dell'esercizio della violenza, sentiero che la percorre per tutta la sua estensione, che ne sancisce le svolte e che giustifica la mitopoiesi storiografica. Lì sta il sottile discrimine che farà di un uomo un volgare criminale o il Padre fondatore dello Stato.
E chi, soprattutto, è chiamato a farsi giudice della liceità di quella pretesa? La Storia. Sarà la Storia, la storia dei successi e dei fallimenti cosparsi sulla via dell'esercizio della violenza, sentiero che la percorre per tutta la sua estensione, che ne sancisce le svolte e che giustifica la mitopoiesi storiografica. Lì sta il sottile discrimine che farà di un uomo un volgare criminale o il Padre fondatore dello Stato.
Di Andrew Dok
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