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Blog perverso e polimorfo, abitato da forme di vita aliene e virulente: siamo portatori insani del virus del pensiero diagonale.

giovedì 9 maggio 2013

PAUSA CAFFE'






PERSONAGGI:
Paolo.
Vito.
Emiliano detto Zapata.
AMBIENTAZIONE:
Cantiere navale. Macchina del caffè, tra la porta dei cessi da dove
esce un nauseabondo odore di urina e la prua del motoscafo Gheopard
30 MT Sport. Sul lato destro della macchinetta c’è un bidone
di plastica con dentro un sacco nero pieno di bicchierini di carta
mentre davanti, accuratamente sistemati sopra uno scaffale di
ferro, si trovano i grossi fogli di compensato da 15 mm pronti per
esser tagliati. Da dentro la barca fuoriesce un assordante rumore di
pialle elettriche, gattucci e ogni altra sorta di utensile atto a tagliare
il legno o la resina. Nell’aria galleggia una coltre di pulviscolo
marrone talmente leggero e sottile che pare quasi un delicato banco
di nebbia.
VITO: scusi, buongiorno, stavo cercando il signor Paolo della “RS
Resinature Navali”.
EMILIANO: mettiti pure a sedere lì tranquillo (indica i grandi fogli
di compensato di fronte alla macchinetta del caffè) perché il signor
conte Paolo prima delle nove non è mai sul posto di lavoro.
EMILIANO (mentre si mette la mano in tasca in cerca della chiavetta
di plastica verde da mettere dentro la macchinetta): lo prendi
il caffè?
VITO: sì grazie.
EMILIANO: sei anche te di Palermo? Qui dentro ormai siete quasi
tutti siciliani.
Vito annuisce col capo, in silenzio. Dopo alcuni istanti Emiliano
prende l’espresso da sotto il coperchio di plastica trasparente della
macchinetta, glielo passa e preme un’altra volta il tasto del caffè.
EMILIANO: digli al tuo datore di lavoro che quel pezzettino di carta
lì che tieni in mano, può pure infilarselo nel buco del culo. Per
resinare ci vogliono quelle buone, coi cartoncini intercambiabili e
tutto il resto. (Intanto che con la sinistra preleva il suo caffè, col dito
indice della destra indica la mascherina tenuta in mano da Vito).
VITO: Cosa vuol dire tutto il resto?
EMILIANO: sì tutto il resto, una trentina d’euro per andarla a comprare.
VITO: minchia!
EMILIANO: minchia un paio di palle! Con quell’affare di cartone
che ti hanno rifilato, se continuerai a fare questo lavoro, tra una
ventina d’anni ti sveglierai una mattina con un po’ di tosse, andrai
dal medico a farti vedere, e dopo qualche giorno... ualà, la sorpresa:
anche se non hai mai fumato un cazzo di sigaretta in tutta la tua vita,
ti ritrovi un tumore ai polmoni grosso così.
Emiliano detto Zapata inizia a bere il suo caffè e si va a sedere accanto
a Vito sulle tavole di compensato.
EMILIANO: cosa facevi a Palermo?
VITO: il contadino nel piccolo aranceto di mio padre. Adesso non
c’è più lavoro perché quasi tutte le arance le importano dalla Spagn...
EMILIANO (senza neanche fargli finire la frase): il contadino nel
piccolo aranceto di tuo padre!? E tu hai lasciato la tua terra, il profumo
del mare pulito e delle arance e magari anche una ragazza, per
farti mille chilometri e venirti a massacrare per poco più di niente
in un posto come questo? Lo sai, tanto per dirtene una, cosa hanno
iniziato a fare alcune ditte che lavorano in questo splendido cantiere
navale?
VITO (facendo un secco e impercettibile gesto col capo): tsu...
EMILIANO: Siccome dicono che c’è poco lavoro, allora, anziché
pagarti le otto ore al giorno come da contratto e come effettivamente
lavori, te ne pagano soltanto sette e te ne aggiungono una di ferie per
far quadrare i conti sulla busta paga. E invece, quando bisogna consegnare
la barca, facendo finta di piangere per la carenza di lavoro,
allora ti fanno sgobbare anche dodici ore al giorno e te ne retribuiscono
solamente otto.
VITO: minchia!
EMILIANO: e se credi che sia finita qui, ti sbagli di grosso.
VITO: perché?
EMILIANO (con un amaro sorriso scolpito sulle labbra si alza,
prende il bicchiere vuoto dalle mani di Vito e lo getta assieme al suo
dentro il cestino dei rifiuti. Poi torna a sedere): vedi, io sono quello
che in gergo non troppo tecnico viene definito un fannullone, cioè,
un essere umano che si fa le sue otto ore senza rompere i coglioni a
nessuno e che, quando suona la sirena di fine turno ed iniziano gli
straordinari, chiude la cassetta dei ferri e corre a farsi i fattacci suoi.
Se tutti facessero così, anziché comportarsi come il tuo Paolo che
viene sempre a lavorare con quasi due ore di ritardo, le cose secondo
me andrebbero decisamente meglio.
VITO: e lo pagano pure?
EMILIANO: certo che lo pagano, come no?! E non timbra nemmeno
il cartellino, come invece fanno tutti gli altri operai: segna sopra
un pezzo di carta che ha fatto dodici ore, il vostro datore di lavoro si
rumina in tasca ogni venerdì e gli paga al nero tutti gli straordinari
che poi praticamente non fa e delega agli altri. E naturalmente, alla
fine del gioco, se il lavoro è venuto bene e la barca è stata consegnata
nei tempi prestabiliti, tutto il merito è di Paolo; altrimenti, se
le cose vanno male o c’è qualche intoppo lungo la lavorazione, la
merda è tutta di Mocombo, il tuo collega di lavoro.
VITO (ghignando): la dura vita dei responsabili.
EMILIANO (annuendo col capo): la dura vita di chi è buono a leccare
dei culi. (Pausa). Pensa che il vostro principale non si vede
mai e da un punto di vista lavorativo ha cresciuto Paolo a propria
immagine e somiglianza.
EMILIANO (dopo essersi alzato e stirato la schiena): sono le nove
passate e adesso devo tornare a bordo... ah! A proposito (gli tende
la mano sorridendo) io sono Emiliano, ma qui dentro tutti mi chiamano
Zapata.
VITO: io sono Vito (risponde alla stretta di mano anch’egli col sorriso
sulle labbra).
Emiliano detto Zapata esce di scena incrociando Paolo non ancora
vestito con gli abiti da lavoro. I due si guardano per un attimo in
cagnesco. Paolo è di passo veloce, ha i capelli impomatati, indossa
vestiti sportivi e tiene in mano le chiavi della sua motocicletta. Si
mette davanti a Vito che è ancora seduto sulle tavole di compensato
davanti alla macchinetta del caffè.
PAOLO: (con cipiglio austero, da padrone): Vito Renda?
VITO (alzandosi di scatto come una molla): sì.
PAOLO: sono le nove passate e sei ancora alla macchinetta del caffè!?
In fondo al mese il nostro titolare ci paga per essere sul posto di
lavoro alle sette e mezza precise! Capito?
VITO (abbassando lo sguardo, con timidezza): sì...
PAOLO (mantenendo il cipiglio austero ma ammorbidendo leggermente
il tono di voce): stavolta passa perché è il tuo primo giorno
di lavoro, ma bada bene che non si ripeta mai più. La pausa caffè è
dalle otto e quarantacinque alle otto e cinquantacinque. Chiaro?
Vito annuisce col capo, in silenzio e con ancora lo sguardo basso.
PAOLO (tronfio e impettito): allora Vito, stamani devi dare una mano
a quel cretino di Mocombo. Vai a bordo di questa barca, la commessa
30\07 (alza lo sguardo e indica la grossa prua quasi sopra le loro
teste), scendi in sala macchine e lo aiuti a resinare i basamenti dei
motori. Almeno inizi a prendere confidenza con gli attrezzi.
VITO (riacquistando un po’ di forza nel tono di voce): ma non vieni
anche tu a farmi vedere quello che devo fare?.
PAOLO: no! Ci pensa Mocombo! Io dovrei farcela a tornare per
oggi pomeriggio.
VITO: ma chi è Mocombo?
PAOLO: appena sali a bordo lo riconosci subito. Oltre a puzzare come un maiale ammarcito è l’unico negro che lavora in sala macchine.
VITO: ok. Allora io vado, ci vediamo dopo.
PAOLO (con indifferenza e sovrappensiero): sì... sì... ciao...
Vito si gira e con in mano la sua mascherina di cartone tenuta per
l’elastico, incomincia a incamminarsi verso la scala per salire a
bordo alla barca.
PAOLO: oh! (fischio) oh! (fischio) oh! come cazzo ti chiami PALERMO!
Vito, che aveva già percorso una quindicina di metri, si ferma e
capisce che il responsabile lo sta chiamando. Poi si volta nella sua
direzione.
PAOLO: prendi il cellulare che ti lascio il mio numero di telefono.
Vito si toglie il telefono di tasca e dopo aver pigiato qualche pulsante,
lo segna nella rubrica.
PAOLO (mostrando due dita della mano): uno, se per caso capitasse
il principale gli devi dire che sono appena uscito per andare a prendere
del materiale al magazzino. Poi subito dopo mi telefoni. Due,
se vuoi un consiglio da amico non parlare più con quello Zapata.
Quello è un fannullone e sicuramente qui dentro sarà il prossimo ad
essere licenziato.
Pausa.
VITO (col sorriso sulle labbra): ma chi era questo Zapata?
PAOLO (quasi stupito): come non sai nemmeno chi era Fernando
Zapata!? Allora sei proprio duro! Fernando Zapata era un tale che
nel 1700 uccise e mangiò due bambini appena nati giù in Messico,
a Las Plata per l’esattezza.
VITO (ancora sorridente): va bene capo. Allora ci vediamo oggi.
PAOLO: ciao.
Vito si volta nuovamente verso la scala e riprende a camminare.
Paolo, invece, si guarda attorno con aria furbesca e poi schizza al
di fuori della porta d’ingresso del cantiere navale.

mercoledì 1 maggio 2013

La violenza e lo Stato (un abbozzo alquanto parziale)


L'attentato di palazzo Chigi, avvenuto nel corso del giuramento del Governo Letta, ha riproposto vecchie argomentazioni e posizioni ormai scontate, politically correct, sul concetto di violenza. Argomentazioni su cui pesano ancora gli anni di piombo, la strategia della tensione – di tanto in tanto rispolverata da destra e da sinistra – le nuove BR ecc. Comunque tutti concordi nel ripudiarla, nello spingerla giù nello sprofondo dell'inconscio collettivo, affinché si ripresenti solo come sintomo.
Certo, massima deve essere la solidarietà verso i carabinieri feriti domenica scorsa e anche verso quella ragazza di 23 anni che vede suo padre lottare con un destino, in ogni caso, foriero di difficoltà. La violenza fine a sé stessa è sempre da condannarsi senza remore, senza riserve, senza pietà.
Tuttavia, chi sostiene che la violenza tout court sia senz'altro da ripudiare o fa parte dell'establishment o, democratico e pacifista radicale, preferisce chiudere gli occhi di fronte ad un fatto: la violenza non è un disvalore, è uno strumento. Nel primo caso, nel caso di chi appartiene alla classe dirigente, si mette in atto uno schema difensivo, non per condannare la violenza a 360 gradi, ma per salvaguardare il monopolio dell'uso della forza da parte del potere statuale; e ciò è senza dubbio sensato. Il concetto stesso di Stato, nel senso più rigoroso del termine, rivendica per sé il monopolio della forza e della coercizione. É questo monopolio stesso che lo salvaguarda dalle pulsioni disgregatrici che ogni Stato, come centro di potere, cova in seno. Ma c'è un “ma”; c'è sempre un “ma”.
Se lo Stato è virtuoso, se si mantiene nei limiti di un uso virtuoso della coercizione – e qui, naturalmente, apriremmo una voragine, se solo volessimo definire tale virtù nel suo diritto – saprà allora assolvere a dovere il proprio compito. Tuttavia, se solo ci chiediamo quale sia quel limite, quel confine, ecco che è l'intero concetto di Stato ad essere posto in dubbio. Fin dove può spingersi lo Stato nell'esercizio di questa sua prerogativa? E perché? E quando, tale prerogativa, cessa di essere istituzionale?
Ora, è piuttosto evidente che un limite di tal fatta non è tracciabile con precisione, in primo luogo perché, a parità di condizioni, è il sistema valoriale di riferimento – il comune buon senso – che ne influenza la collocazione, in secondo luogo perché, variando con il variare del contesto, quel confine è costitutivamente provvisorio. Insomma, anche se, perché una comunità complessa come uno Stato possa esistere, è necessario che detenga il monopolio della forza – compresa la possibilità di delegarla ad altre mani – quel monopolio, e il limite entro cui esercitarlo, è arbitrario, è discrezionale. Ma, se così stanno le cose, è del tutto legittimo porci un'ulteriore domanda, soprattutto se si tratta di uno stato democratico: fino a qual punto è necessario tollerare quell'utilizzo esclusivistico ma discrezionale della violenza? Quando quell'utilizzo diventa intollerabile? Ma soprattutto, e in tal caso, come possiamo – o dobbiamo, in qualità di cittadini – rispondere?
Credo sia ormai ovvio dov'è che voglio arrivare. Il punto è che l'esercizio della violenza – repressione, coercizione, custodia cautelare, attentato dinamitardo ecc. – chiunque sia ad esercitarla, stato, criminalità, agenzie di vigilanza privata, è sempre arbitrario e deliberato: premeditato.
Ciò che si insegna, per prima cosa, al neofita del pugilato è la guardia, vale a dire si perfeziona la risposta istintiva, naturale, che chiunque oppone ad una aggressione. Il contrattacco è sempre successivo, è il frutto di una libera scelta fra restituire l'offesa e fuggire. L'esercizio della violenza, quindi, non è mai qualcosa di meccanico, di automatico, ma è sempre il frutto di una scelta deliberata ed in quanto tale potenzialmente errata: eccessiva o inutile.
Lo Stato, anche il più liberale e democratico, facendosi carico del monopolio della violenza, si fa carico al contempo della possibilità dell'errore che, in quanto tale, potrebbe mettere a repentaglio la funzione stessa della violenza istituzionalizzata che, invece di salvaguardare l'unità di quella comunità complessa, la disgrega. Da qui la liceità, per chi ne subisce le conseguenze, di valutare la possibile risposta che, in quanto opposta e contraria alla funzione disgregatrice della prima, si fa Stato essa stessa.
Stando proprio a quanto siamo venuti dicendo, la violenza è sempre una scelta, un deliberato. Quando è giusto ricorrervi? Abbiamo dato per scontato che, entro certi limiti, tanto indeterminati da essere solo di principio, è giusto che lo Stato vi ricorra, come funzione difensiva, ma deliberata, della comunità che rappresenta. Ma quando questo ricorso da parte dello Stato diventa in qualche modo lesivo della comunità che lo costituisce, allora è abbastanza naturale pensare che una risposta analoga – da parte della comunità stessa? di un gruppo specifico originato al suo interno? ecc. – sia giusta se salvaguarda l'unità di quella comunità, rifondando lo Stato. É anche in questo senso, io credo, che possa essere intesa la famosa locuzione marxiana, contenuta nel libro I de Il capitale, “La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova”.
L'equivoco pacifista, che vede nella “non violenza” oltranzista un valore universale e necessario, nasce da un malinteso circa il concetto di democrazia. Sono in molti ad ergerla a valore in sé, ma essa, nella misura in cui trova applicazione pratica, è solo uno strumento. C'è un'enorme distanza fra il concetto e l'ipostasi, tale per cui il concetto non trova mai la sua piena incarnazione. É per questo che molti vedono nelle istituzioni democratiche poco più d'un feticcio o di uno strumento che, in quanto tale, ha una sua utilità rispetto ad un fine ma non è un valore universale. All'idealizzazione della democrazia, a partire dalla formula di Pericle, del Discorso agli ateniesi 461 a. c., 

"Il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi... Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace... Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia",

bisogna opporre la sua realtà, una realtà - ci suggerisce J. A. Schumpeter - che “non è assolut[a] e rigoros[a]” e che “ammette deviazioni”. Infatti, 

"Se per [libertà individuale] si intende l'esistenza di una sfera di autogoverno individuale i cui confini sono storicamente variabili – nessuna società tollera una libertà assoluta nemmeno di coscienza e di parola, nessuna società annulla questa sfera – è chiaro che tutto diventa questione di gradi... il metodo democratico non garantisce necessariamente una libertà individuale maggiore di quella che un altro metodo politico consentirebbe in circostanze simili" (J. A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia).

Detto questo, il metodo dialogico, mai violento, come unico metodo di risoluzione dei contrasti, dato un regime democratico, si rivela una pia illusione e l'opzione violenta può divenire, anche in un paese che si riconosce nei principi democratici, un'opzione non soltanto praticabile ma addirittura necessaria.
L'assunto del pacifismo oltranzista si riduce quindi, nella pratica, al principio secondo cui è preferibile adire a vie pacifiste, nella risoluzione dei conflitti, quando ciò sia possibile. Quando ciò non è possibile, la via violenta può divenire l'unica opzione praticabile, ad esempio per rovesciare un governo dispotico oppure per rovesciare un governo formalmente democratico ma che non contribuisce al bene collettivo, ma soltanto di alcuni gruppi specifici.
Circa la domanda, invece, “quando – nello specifico – e a chi e lecito adire a vie violente?”, quando, cioè, si passa da un piano puramente teorico e di principio, a quello della messa in pratica dell'opzione violenta, ebbene, le problematiche che si impongono sono di natura tale da non essere assolutamente risolvibili se non sul piano storico. Chiunque si opponga con la forza all'ordine costituito – e qui non ha alcuna importanza la natura di quell'ordine – è percepito e fatto percepire come un pericolo per la comunità, per la società, per lo Stato. Un pericolo di cui è necessario sbarazzarsi con la sua messa al bando o con la soppressione. In un primo momento, quindi, quale che sia la natura del gruppo o dell'individuo che agisce per vie violente, lo Stato li oblitererà come criminali e, in quanto tali, antisociali. Questo comportamento è del tutto coerente con la linea di difesa dello Stato che passa per il monopolio della violenza. Chi si oppone all'ordine costituito costituisce un pericolo effettivo all'integrità dell'ordine sociale, chi vi si oppone violentemente, passando cioè alle vie di fatto, deve necessariamente essere represso, anche quando il gruppo o l'individuo in questione appartengono agli organi istituzionali dello Stato. Questa è la chiave. Chi allora, avrà al contempo il diritto ed il dovere di farsi carico dell'esercizio della violenza, esercizio che mira a diventare esclusivo facendosi stato e facendosi carico di una scelta deliberata che, in quanto tale, si scopre fallibile? 
E chi, soprattutto, è chiamato a farsi giudice della liceità di quella pretesa? La Storia. Sarà la Storia, la storia dei successi e dei fallimenti cosparsi sulla via dell'esercizio della violenza, sentiero che la percorre per tutta la sua estensione, che ne sancisce le svolte e che giustifica la mitopoiesi storiografica. Lì sta il sottile discrimine che farà di un uomo un volgare criminale o il Padre fondatore dello Stato.

Di Andrew Dok